In due anni di guerra a Gaza, Israele si è macchiato di una lunga serie di gravissimi crimini ai danni della popolazione palestinese – al punto che è ormai pienamente accettato che sia stato messo in atto un vero e proprio genocidio nei confronti dei gazawi. Eppure, i governi non sembrano capaci né interessati a reagire di conseguenza mentre i tribunali internazionali non hanno la forza per intervenire. E allora, in che modo si deve agire per mettere Israele davanti alle proprie responsabilità penali? Ne abbiamo parlato con Jake Romm, legal advisor della Fondazione Hind Rajab.
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Potresti spiegare che cos’è e di cosa si occupa esattamente la Fondazione Hind Rajab?
L’organizzazione, in sostanza, è una rete globale e decentralizzata di ricercatori, avvocati e attivisti – piccola, ma diffusa in tutto il mondo e in continua espansione – in risposta al genocidio di Gaza, ma soprattutto un’iniziativa collettiva per fare in modo che l’impunità finisca dove inizia la giurisdizione universale. La Fondazione opera quindi su tre fronti principali, a cominciare dalla questione dei cosiddetti “soldati viaggiatori” – soldati delle IDF che, dopo aver prestato servizio a Gaza, si recano all’estero come turisti. In base al principio della giurisdizione universale, qualsiasi Stato che essi visitino può potenzialmente perseguirli per crimini di guerra commessi altrove, per il semplice fatto che si trovano ora sotto la loro giurisdizione. Non si tratta di un concetto teorico, anzi, è un punto che la maggior parte degli Stati ha già da tempo incorporato nella propria legislazione interna. Così, ad esempio, se un soldato israeliano va in vacanza in Spagna, i procuratori spagnoli possono accusarlo per ciò che ha fatto a Gaza. In questo ambito, il nostro lavoro consiste nel tracciare i movimenti di questi soldati: quando pianificano un viaggio, noi abbiamo già i fascicoli pronti da presentare ai procuratori dei paesi di destinazione, con la richiesta di arrestarli, indagarli e processarli.
Il secondo fronte riguarda i casi che coinvolgono cittadini con doppia nazionalità, israeliana e di un altro paese. In genere, questa via è la più promettente, poiché gli Stati hanno sempre giurisdizione sui propri cittadini, indipendentemente da dove siano stati commessi i crimini o dal fatto che si trovino o meno sul loro territorio. A differenza dei casi dei “soldati viaggiatori”, dove la rapidità d’azione è essenziale per evitare che l’individuo lasci il Paese, in questo contesto possiamo lavorare con più calma nella costruzione dei fascicoli e nella preparazione del terreno politico per eventuali procedimenti giudiziari. Inoltre, possiamo contare su una maggiore collaborazione dei governi che non si ritrovano a dover temere che i propri cittadini possano essere perseguiti all’estero. Ogni remora politica scompare, e anzi rappresenta un imperativo morale perseguire i propri cittadini responsabili di genocidio.
Infine, presentiamo comunicazioni al procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI) per chiedere formalmente che si aprano indagini su determinati episodi o individui. Usiamo questo meccanismo in particolare per i responsabili dei crimini più gravi e che vanno raramente all’estero. Ad esempio, abbiamo recentemente presentato un caso relativo ai bombardamenti dell’Ospedale Al-Nasser che hanno ucciso giornalisti, medici e ingegneri impegnati nel soccorso dei superstiti di un attacco precedente. La nostra indagine ha identificato l’esatta unità militare coinvolta e le armi utilizzate, potendo provare che si trattasse di attacchi che erano mirati e intenzionali, aggiungendo un ulteriore livello di responsabilità penale.
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In cosa consistono i crimini di guerra israeliani a Gaza a cui hai fatto riferimento e come ne venite al corrente?
Stiamo assistendo a ogni atrocità concepibile nel più vasto contesto del genocidio: i civili vengono presi di mira con bombardamenti, droni e cecchini, mentre ospedali e altre infrastrutture critiche vengono sistematicamente colpiti. Gli attacchi mirati di Israele e il rifiuto di fornire aiuti umanitari sono azioni calcolate per portare all’annientamento fisico del popolo palestinese. Si vedono anche torture, stupri e sfollamenti forzati che espongono le persone a malattie, alla fame e alla polvere tossica dei quartieri distrutti. È estremamente difficile documentare tutto questo, dal momento che Israele uccide sistematicamente i giornalisti sul campo per eliminare le prove, ottenendo come effetto complessivo un massiccio blackout informativo. Eppure le prove continuano ad arrivare: nei video dei giornalisti, nelle testimonianze delle vittime e persino nei video girati dagli stessi soldati israeliani e pubblicati sui social media, in cui si filmano mentre distruggono edifici civili e si compiacciono pubblicamente di quello che hanno fatto. Quindi, sebbene ci vorranno anni per stimare l’intera portata del genocidio, le prove già dipingono un quadro orribile. Ogni caso che portiamo davanti ai tribunali nazionali contribuisce a costruire una narrazione più ampia, un pezzo alla volta.
La situazione a Gaza ha messo in luce il collasso del diritto internazionale e la sua incapacità di garantire anche i diritti umani più basilari. Questo non è solo una catastrofe per l’equilibrio contemporaneo di potere, ma immaginiamo sia anche un problema per chi si occupa di una questione come la vostra. Come ci si muove tra le rovine del diritto internazionale?
Non è un caso se il nostro principale impegno è lavorare con i tribunali nazionali. Israele sta chiaramente commettendo crimini internazionali – crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e apartheid – contemplati nello Statuto di Roma della CPI o in convenzioni come quelle di Ginevra. Eppure, l’applicazione del diritto internazionale in ultima analisi dipende dai singoli Stati e sono gli stessi Stati che devono mettere in atto queste norme. Per questo ci concentriamo sui quadri giuridici nazionali e non ci limitiamo ai meccanismi internazionali come la CPI. La Corte è sottofinanziata e manca delle capacità e della copertura politica per perseguire il massiccio numero di criminali di guerra che stiamo vedendo in azione. Diversamente dai casi dell’ex Jugoslavia o del Ruanda, Gaza non avrà un tribunale speciale, perché questo dovrebbe essere approvato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite — e Stati Uniti e Regno Unito, che sono fortemente coinvolti, vi porrebbero il veto. Quindi, i tribunali nazionali sono l’unica via per definire la responsabilità penale e solo quando Paesi come il Brasile, la Spagna o la Colombia iniziano a incriminare e perseguire i criminali di guerra secondo le proprie leggi il mondo comincia a rimettere effettivamente in discussione la posizione di Israele. I funzionari governativi e i soldati israeliani non potranno più muoversi per il mondo con tanta libertà, dando così alla legge una concretezza tangibile. Il diritto internazionale non è che una dichiarazione vuota fino a quando gli Stati non gli danno significato nei propri Paesi e se i tribunali nazionali danno seguito agli impegni presi, allora può diventare una struttura vivente che vincola anche le nazioni più potenti.
La Fondazione ha scelto di esercitare pressione legale su singoli soldati israeliani. Perché tutta questa attenzione sulla responsabilità individuale? Può essere pensata come un’arma in più ampio conflitto politico?
Il genocidio è un’impresa collettiva che coinvolge tutti i livelli dello Stato e segmenti significativi della società. Certamente, leader politici come Netanyahu, Gallant, Smotrich e tanti altri hanno ciò che chiamiamo la “responsabilità di comando”: danno gli ordini, incitano il pubblico, formano l’ambiente politico e ideologico che rende possibile uno sterminio; ma senza le persone che eseguono materialmente gli ordini nulla di tutto ciò sarebbe possibile. Insomma, non è stato Netanyahu in persona a uccidere qualcuno a Gaza, lo ha fatto un’altra persona che però aveva il dovere legale e morale di rifiutarsi di eseguire richieste illegali. Ogni soldato sa, o dovrebbe sapere, che l’adempimento di un ordine manifestamente illegale costituisce un reato stesso e che il ritornello “stavo solo obbedendo agli ordini” non è e non è mai stato una difesa valida. Quindi, condannando singoli soldati, stiamo davvero dicendo questo: tu hai scelto. Non eri uno strumento senza mente. Avresti potuto dire no. E alcuni, in effetti, lo fanno: alcuni giovani israeliani si rifiutano di servire, dichiarando che non parteciperanno a un genocidio, pagando la propria scelta con qualche mese di carcere. Al contrario, coloro che scelgono di servire, di sparare, di bombardare, di torturare scelgono attivamente di partecipare alle atrocità, quindi sono partecipanti attivi del genocidio e devono essere trattati di conseguenza. Questo focus sulla responsabilità individuale ha anche una funzione politica, poiché si elimina l’illusione che il genocidio sia un’astrazione, commesso da leader lontani. Si dimostra, invece, che è messo in atto, passo dopo passo, da persone comuni che compiono scelte banali come obbedire o disobbedire. Insomma, affermare legalmente e pubblicamente le responsabilità individuali aiuta a smantellare la macchina dell’impunità che permette a intere società di commettere questi crimini e continuare a definirsi democratiche.
Nel saggio di Christopher Browning Uomini comuni (Einaudi, 2022), si evidenzia l’estrema rarità di casi documentati di soldati tedeschi giustiziati perché rifiutarono di uccidere qualcun altro. L’unica ragione per cui alla fine tutti hanno deciso di uccidere gli ebrei e i civili fu la pressione sociale, per ciò che ti legava ai tuoi compagni d’armi, alla tua famiglia e alla società in generale. Si può dire la stessa cosa del contesto israeliano? Pensi che dovremmo mettere sotto accusa la società israeliana nel suo complesso?
Assolutamente sì. La società israeliana sostiene il genocidio perché essa stessa si è costruita proprio a partire dalla spoliazione dei palestinesi e questa fondazione continua a plasmare ogni generazione israeliana. Diversamente da altre società occidentali che, almeno in un certo periodo storico, si sono mosse a sinistra, Israele è andato nella direzione opposta, diventando progressivamente più di destra ed estremista, anche tra i giovani. Questo è l’esito naturale di un progetto coloniale di insediamento che non può che tendere sempre alla violenza. Tra l’espansione dell’occupazione della Cisgiordania e di Gaza e il consolidamento dell’impresa dei coloni, si è affermata una visione del mondo in cui i palestinesi non sono visti solo come estranei, ma come una minaccia esistenziale la cui stessa esistenza sfida la narrativa sionista. Per questo la società israeliana, dai media all’esercito e al governo, è profondamente investita nel completamento del progetto coloniale, che oggi si manifesta nella forma del genocidio: quando concentriamo l’azione legale sui singoli soldati, non è solo perché sono loro a commettere materialmente i crimini, ma anche perché spesso agiscono di propria iniziativa. Molti operano con totale impunità a Gaza, creando “zone a fuoco libero” dove chiunque può essere arbitrariamente colpito, secondo un modello tipico delle guerre coloniali come quella in Vietnam. Questa cultura dell’impunità corre dall’alto al basso e al contempo ogni soldato sa che la responsabilità verrà infine spostata sui leader politici. Proprio questa convinzione permette alla macchina della violenza di continuare senza interruzioni. Proseguendo con le incriminazioni degli individui, possiamo cominciare a incrinare quella certezza, a far esitare i perpetratori e a introdurre la responsabilità a tutti i livelli. Naturalmente, questo potrebbe anche rafforzare la mentalità d’assedio di Israele – l’idea che “il mondo intero è contro di noi”. Ma se la giustizia deve significare qualcosa, allora deve essere comprensiva e affrontare sia i colpevoli sia le strutture sociali che li hanno prodotti. Dopo la Seconda guerra mondiale, il processo incompleto di denazificazione permise alle tendenze fasciste di persistere sotto la superficie delle cosiddette democrazie e oggi ne stiamo ora vivendo le conseguenze, dalla rinascita dell’estrema destra in Europa fino proprio al genocidio a Gaza. A meno che la società israeliana nel suo insieme non venga affrontata, la stessa dinamica di impunità persisterà.
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Hai studiato e scritto sull’interazione tra sionismo e antisemitismo. Come descriveresti queste tensioni oggi e come si stanno evolvendo nel discorso pubblico?
Credo sia innegabile che il sionismo e le azioni di Israele siano direttamente legate ad atteggiamenti antisemiti, ma secondo modalità più sottili rispetto a quelle normalmente intese. Se lo stivale che ti calpesta il collo porta una Stella di David e chi lo indossa proclama di agire in nome di tutti gli ebrei, è comprensibile che alcuni possano cominciare ad associare l’ebraicità all’oppressione. Eppure quello non è l’antisemitismo classico, ma una reazione alla violenza e alla colonizzazione. Come ha detto Mohammed El-Kurd, non è colpa dei palestinesi se i loro colonizzatori sono ebrei. Da parte mia, non mi limito ad affermare che il sionismo crei antisemitismo, ma che sia esso stesso una forma di antisemitismo. Non perché comporti odio per gli ebrei in quanto tali, ma perché imita l’ideologia antisemita in un nuovo quadro nazionalista e coloniale: tradizionalmente, i leader sionisti disprezzavano gli ebrei d’Europa, vedendoli come gli ebrei “deboli” della diaspora e che infatti perirono nell’Olocausto. Menachem Begin e persino David Ben-Gurion parlavano delle vittime della Shoah in termini sprezzanti: ebrei dalle “ginocchia tremanti”, simboli di vergogna. Il sionismo, nella sua auto-definizione, ha costruito il “Nuovo ebreo” rifiutando e denigrando ciò che considerava i patetici residui dell’esilio. Questo è già una forma di antisemitismo che internalizza gli antichi stereotipi dell’ebreo debole, apolide e passivo e li riusa per giustificare un’identità violenta e militarizzata. Perfino la nozione di ebrei come razza distinta dall’Europa è di per sé una fabbricazione antisemita, che il sionismo ha abbracciato invece di combattere.
Si possono anche ricordare le tesi espresse da Adorno e Horkheimer nel saggio Elementi dell’antisemitismo, che vedevano in esso una patologia sociale, un modo deformato di pensare prodotto dalla modernità capitalistica. Non è necessariamente odio per gli ebrei; è una mentalità che può attaccarsi a qualunque gruppo una volta che il persecutore abbia sperimentato la “normalità” e la dominanza – ed è evidente che, in Israele, il sionismo abbia raggiunto quello stadio. Avendo assicurato potere politico e statualità, ha assunto la mentalità antisemita: paranoia estrema verso l’Altro, colpevolizzazione della vittima e costante senso di persecuzione. Qualsiasi cosa faccia Israele, anche gli attacchi più aggressivi, viene giustificata in nome dell’autodifesa. Non si tratta di una semplice retorica legale ma di un fatto psicologico per cui l’oppressore crede genuinamente che la vittima sia la minaccia. Si vede chiaramente come Israele razzializzi i palestinesi, sia definendoli come una razza distinta che negandone la natura di popolo. I palestinesi vengono descritti dai sionisti semplicemente come arabi senza un legame specifico con la terra e questo rispecchia perfettamente il modo in cui l’antisemitismo europeo descriveva gli ebrei, ridotti ad estranei cosmopoliti senza nazione. È un’inversione quasi perfetta: le vittime precedenti di quell’ideologia ora duplicano la sua logica su un altro popolo. Il sionismo, dunque, non è solo un’avventura coloniale ma vero e proprio erede ideologico del fascismo europeo e dello stesso antisemitismo. È erede della medesima logica razzista, delle stesse proiezioni paranoiche, filtrate attraverso una lente nazionalista. E quando quella mentalità cattura uno Stato, la violenza di massa diventa inevitabile.
Negli Stati Uniti osserviamo un interessante spostamento in alcuni rami della destra trumpista verso posizioni critiche su Israele, incarnato da Marjorie Taylor Greene. Qual è la tua lettura di questa tendenza, e come potrebbe cambiare il discorso politico globale?
Stanno accadendo varie cose allo stesso tempo. Primo, penso che la scala dell’orrore a Gaza sia ormai così evidente che persino alcuni esponenti della destra estrema reagiscono in una sorta di genuino shock. Più strutturalmente, quello che si vede è che figure come Greene non fanno parte dell’establishment repubblicano. Sono entrate in politica come outsider che non devono nulla alla macchina del partito, allo stato della sicurezza nazionale o all’establishment della politica estera. Diversamente da figure come il senatore repubblicano Lindsey Graham, che è essenzialmente un’emanazione dello stato della sicurezza nazionale e ha sostenuto ogni guerra d’aggressione americana della memoria recente, Greene e simili non sono stati integrati in quei network istituzionali. Ciò dà loro margine per dire cose che i repubblicani mainstream semplicemente non possono dire. I politici dell’establishment – democratici e repubblicani – sono troppo investiti nella logica dell’imperialismo USA, per cui Israele è un avamposto strategico in Medio Oriente, perpetuando la destabilizzazione della regione e la sua dipendenza dal potere americano. Mettere in discussione Israele equivarrebbe a mettere in discussione l’intero assetto imperiale, e questo non è qualcosa che l’establishment politico è disposto a fare. Al contrario, gli outsider trumpisti hanno fondato la loro identità nella resistenza alla politica dell’establishment, come l’interventismo estero. Gli slogan “America First”, presi alla lettera, li obbligano a opporsi ai giganteschi aiuti a Israele – sebbene, chiaramente, questo non sia per ragioni morali ma solo perché vi vedono uno sperpero delle risorse americane, come anche nel caso della guerra in Ucraina.
Oltre a questo c’è anche una motivazione politica pratica, data dal fatto che l’opinione pubblica americana si è nettamente schierata contro le azioni di Israele. Non lo si direbbe a guardare i media, unanimamente a sostegno di Israele, ma i sondaggi mostrano che la maggioranza degli americani disapprova ciò che sta accadendo in Palestina. Il dissenso attraversa fasce d’età e persino affiliazioni di partito. Un imprenditore politico riconoscerebbe quella tendenza e comincerebbe a prendere le distanze da Israele, ma i politici dell’establishment non possono farlo, dato che la loro visione del mondo è costruita attorno al rapporto USA-Israele. Così sono proprio questi esponenti della destra estrema, ironicamente, i primi a incrinare il muro del silenzio nel Partito repubblicano. Che ciò avvenga per autentica indignazione morale, per opportunismo o per una lettura grezza dei sondaggi, ha comunque un effetto: apre uno spazio nel discorso americano dove criticare Israele non è più del tutto tabù. Naturalmente, ciò non rende Greene o i suoi sostenitori degli anti-imperialisti, la loro ideologia resta fortemente autoritaria, nazionalista bianca e militarista. Ma la loro rottura retorica con il sostegno incondizionato a Israele potrebbe contribuire a mutare il panorama. Potrebbe rendere la critica a Israele meno costosa dal punto di vista politico e, in questo senso, accelerare un riallineamento già in corso, anche all’interno del Partito democratico. Non importa se quel riallineamento derivi da coscienza o cinismo; è secondario rispetto all’impellente necessità di porre fine alla complicità americana nel genocidio – perché senza armi, denaro e protezione diplomatica statunitensi, l’assalto di Israele non potrebbe continuare.