Nel 1991 il singolo Wind of Change della band heavy metal Scorpions, un inno alla caduta del comunismo, vende ben 14 milioni di copie. La guerra fredda era vinta, il socialismo reale sconfitto e l’euforia generale era tale da permettere di sorvolare sulle tragedie che questo passaggio storico stava causando e avrebbe causato. Non era solo una distrazione di massa. Il “momento unipolare” era anche un momento in cui il capitalismo si scopriva nella posizione di poter ridefinire completamente la forma del mondo, disfando e rifacendo nazioni.
La ridefinizione dei confini statali dopo una vittoria militare non è una novità – al contrario, è una legge della politica internazionale. La pace di Vestfalia, il congresso di Vienna, la conferenza di Postdam ne sono tutti esempi: ristabiliti militarmente gli equilibri, un ristretto gruppo di stati si accorda a porte chiuse per risolvere le questioni in sospeso e riscrivere, letteralmente, le carte geografiche. Un tratto di penna su una mappa può avere infinite conseguenze, rendendo il mondo il prodotto della rappresentazione che ne facciamo. Il che sottolinea il potere delle mappe ma anche l’artificialità dello stato-nazione, che esiste solo finché non è cancellato da un tratto di bianchetto.
Wind of Change era l’inno del capitalismo globalizzato e della sua illusione che le carte geografiche avessero preso la propria forma definitiva. Ma con la fine dell’epoca della “fine della storia” e il ritorno dell’instabilità, con il declino economico dell’egemone occidentale e il sorgere di altri attori che lo mettono in discussione, le mappe ricominciano a cambiare. Basta missioni di pace e conflitti congelati, basta linee tratteggiate: l’esempio più recente è la dissoluzione ufficiale, che avverrà nel gennaio 2024, dell’Artsakh, conquistato dall’Azerbaijan e destinato a sparire per sempre. In questa fase di riequilibrio globale, l’irredentismo, praticamente scomparso in Occidente, ritorna forte altrove: le nuove mappe della Russia già includono i territori ucraini annessi; la nuova mappa standard della Cina include una linea di 10 tratti, uno in più dei 9 precedenti, con cui si reclama praticamente tutto il mar cinese meridionale; nel parlamento indiano, un nuovo murale mostra Akhand Bharat, la Grande India, che comprende territori di Pakistan, Bangladesh e Nepal. Persino Dua Lipa ha postato una mappa della Grande Albania.
Il precursore di queste tendenze è lo stato di Israele, che da sempre vive in un limbo tra la guerra perenne e la stabilità post-storica. Israele è abituato al mutamento costante delle proprie mappe, e si comporta allo stesso modo con quelle altrui. Così i territori palestinesi occupati, nelle mappe israeliane, sono Israele, nonostante non siano ancora stati ufficialmente annessi – l’ultimo caso del genere è la mappa presentata da Netanyahu all’ONU nel settembre 2023.
La scoperta rappresentazione delle proprie ambizioni territoriali riguarda anche i piani israeliani per l’intera regione. Nel 1982 la rivista Kivunim aveva pubblicato il “piano Yinon”, dal nome di un ex funzionario del Ministero degli Esteri israeliano, in cui si proponeva la balcanizzazione su basi etno-religiose dell’intero Medio Oriente come condizione necessaria per la sopravvivenza di Israele. Il piano prevedeva l’istituzionalizzazione delle conquiste israeliane ma anche la frammentazione di intere nazioni come Arabia Saudita e Iraq e la creazione di uno stato curdo.
All’epoca anacronistica, l’intenzione dichiarata di abolire o smembrare paesi con cui non ci si ritrova in stato di guerra sarebbe diventata la norma nell’Occidente del XXI secolo. È un atteggiamento che rappresenta un tentativo, da parte dell’Occidente, di venire a patti con il suo declino. Non più in grado di immaginarsi alla conquista di nuovi territori, non ancora in grado di accettare la “fine dell’abbondanza”, soltanto in grado di ricorrere al pensiero magico: se l’età dell’oro degli anni Novanta e Duemila era iniziata con la balcanizzazione dell’Unione Sovietica, forse balcanizzando qualcun altro l’età dell’oro tornerà.
E dunque ecco, nel contesto della guerra in Ucraina e della competizione globale con la Cina, l’emergere di un trend di mappe che immaginano la divisione della Russia e della Cina. Il capo dell’intelligence ucraina, Kirilo Budanov, ha una di queste mappe nel suo ufficio: mostra una Russia ridotta alla sua sola parte europea, mentre il resto del paese è ceduto ai vicini (compresi Ucraina e Cina) oppure riorganizzato in nuove entità statali. La Cecenia occupa tutto il Caucaso, per esempio, e c’è una vastissima Repubblica dell’Asia centrale.
Talvolta dietro il comparire di queste mappe c’è un ritorno, distorto, della retorica anticoloniale. È il caso del Forum delle nazioni libere della post-Russia, un’alleanza di movimenti separatisti e anti-putiniani nata nel maggio 2022, con legami con il governo polacco. Il loro progetto è la divisione della Russia in 34 entità statali distinte, sulla base dell’autodeterminazioni di minoranze nazionali oppresse – in un ritorno postmoderno al concetto dell’impero russo come “prigione dei popoli”. Con la differenza che, stavolta, a portare avanti tali rivendicazioni non sono movimenti indipendentisti autoctoni ma think tank occidentali.
Lo stesso vale per la Cina. Qui la definizione degli indipendentismi artificiali si basa sulle teorie dello storico cinese Liu Zhongjing che, ispirandosi al filosofo tedesco Oswald Spengler, ha sostenuto che la cultura cinese sia morta 2000 anni fa, rendendo più che obsoleto lo stato che ad oggi ne porta il nome – una esplicita risposta ai propagandistici “5000 anni di storia cinese ininterrotta” cari a Xi Jinping.
La fissazione per la dissoluzione dei propri nemici geopolitici ha dunque un sottotesto di disagio psicologico; è una sorta di culto del cargo: se facciamo abbastanza progetti per balcanizzare i nemici dell’Occidente, l’Occidente tornerà in ascesa. Il caso clinico più noto è Gunther Fehlinger, un economista austriaco pro-NATO diventato un giullare di corte su Twitter per le sue innumerevoli mappe in cui invoca la dissoluzione di… pressoché qualunque stato non sia perfettamente allineato con l’egemonia globale degli Stati Uniti. Con conseguenze paradossali: la sua mappa dell’India decolonizzata (trovata chissà dove su internet e semplicemente ripostata, come tutte le sue mappe) cedeva una parte consistente di territorio indiano ai maoisti naxaliti.
Editor di Iconografie.