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Fin dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina politologi, storici, giornalisti, analisti – in sostanza: chiunque – si sono rincorsi nel cercare una causa allo scoppio del conflitto, invocando a seconda dei casi l’allargamento della NATO, la follia di Putin o le vicende del principe Oleg nella Rus’ di Kiev nel IX secolo. Raramente si è fatto invece riferimento alle dinamiche di classe che attraversano le società dei due paesi. Ne abbiamo parlato con Volodymyr Ishchenko, sociologo ucraino, ricercatore della Freie Universität Berlin e autore di Towards the Abyss: Ukraine from Maidan to War (Verso, 2024).

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All’origine dell’attuale conflitto in Ucraina c’è Euromaidan, un grande movimento di piazza dominato dalla classe media e mosso in primis dall’avversione per la corruzione. Questo sembrerebbe collocare l’Ucraina in una più ampia tendenza globale degli anni Dieci: dove si è distinto il movimento ucraino e cosa è successo a quelle richieste fino ad oggi?

Euromaidan è stato un evento importante per comprendere l’ondata globale di proteste che nello scorso decennio hanno coinvolto enormi masse di persone, ma senza comportare cambiamenti degni di nota. Euromaidan non è stato un movimento, non ha avuto una vera e propria struttura né uno sviluppo nel tempo – è durato appena tre mesi. Ma ha coinvolto una massa di persone fra cui la classe media non era necessariamente la maggioranza e, anzi, la violenza è iniziata solo quando sono stati gruppi più poveri e di origine rurale a prendere il controllo della piazza. Proprio il suo carattere amorfo ha fatto sì che la protesta venisse facilmente dirottata da parte di settori delle élite meglio organizzati, come le ONG neoliberali (rappresentanti degli interessi del ceto medio professionale e del capitale transnazionale), alcuni gruppi di oligarchi (fra cui Poroshenko, poi eletto presidente) e i nazionalisti radicali, forti non tanto numericamente, ma nella capacità organizzativa. Tutti hanno beneficiato dell’Euromaidan e sono stati in grado di portare avanti i loro interessi.

Le masse che hanno partecipato a Euromaidan erano genericamente contro la corruzione, un concetto che gruppi sociali diversi intendono in modo diverso: per le ONG si trattava principalmente di rendere trasparenti le regole del business a vantaggio del capitale transnazionale, mentre per la maggioranza delle persone il tema si legava all’idea di giustizia sociale. 

Invece, l’elezione di Zelensky non è stata una diretta continuazione di Euromaidan – tant’è che buona parte dei suoi voti nel 2019 provenivano dalle regioni meridionali e orientali dell’Ucraina, in maggioranza scettiche sulla protesta. È stato votato per determinati motivi una risoluzione pacifica della guerra nel Donbass, la fine dell’agenda nazionalista di Poroshenko – ma queste speranze sono state tradite quando si è rivelato essere solo un altro presidente bloccato in una trappola simile a quella in cui si era già trovato Poroshenko dopo Euromaidan: stretto tra la società civile neoliberale e nazionalista da un lato, e i gruppi oligarchici e il capitale transnazionale dall’altro. Per questo prima dell’invasione Zelensky non è riuscito a rafforzare il suo potere ma anzi si è fatto sempre più nemici sia all’interno della fazione filo-russa della politica ucraina, sia all’interno di quella filo-occidentale.

 

Parlando del conflitto russo-ucraino si è fatto più volte riferimento al diritto all’autodeterminazione dei popoli. Ha senso fare riferimento a tale categoria? Si possono individuare tratti reali di resistenza “anticoloniale” nei dieci anni di conflitto?

I riferimenti contemporanei al diritto all’autodeterminazione tendono a trascurare completamente i rapporti di classe: quando se ne parlava tra XIX e XX secolo, i movimenti anticoloniali si basavano su una coalizione fra le classi contadine, l’intellighenzia rivoluzionaria e la borghesia nazionale. Le forze di classe dietro l’Ucraina oggi invece sono il ceto medio professionale e il capitale transnazionale. Inoltre nelle discussioni sull’autodeterminazione dei popoli rientrava anche la rivendicazione di un nuovo tipo di stato, lo stato nazionale, che avrebbe dovuto sostituire l’Ancien Régime. Quindi in quel momento il nazionalismo era una forza di modernizzazione – molto spesso strettamente connessa alle ambizioni di rivoluzione sociale. Ciò è vero in particolare nel caso ucraino: cento anni fa la stragrande maggioranza di coloro che rivendicavano l’indipendenza ucraina erano socialisti, bolscevichi e non. Anche nelle ex colonie europee l’obiettivo non era solo sbarazzarsi dei colonialisti, ma anche costruire stati con un forte settore pubblico in grado di guidarne lo sviluppo. In questo momento, tutte queste questioni sono praticamente assenti nel dibattito sull’Ucraina, riducendo la discussione a una questione identitaria. Quando parliamo di autodeterminazione, chi determina per chi? Qual è il diritto legittimo per un certo gruppo all’interno di una società ucraina complessa e diversificata di decidere per altre parti, che potrebbero non condividere gli stessi interessi? L’Ucraina non è come una piccola tribù, è una moderna società industriale in cui convivono gruppi e classi sociali con interessi differenti.

Per fare un esempio, pensiamo alla coscrizione militare, fortemente determinata in senso classista, da cui una situazione in cui le persone che hanno sofferto di più sono anche le meno privilegiate nella gerarchia sociale, mentre il dibattito pubblico è nelle mani del ceto medio. Se non ci si pone domande sulla concretezza di questa autodeterminazione ci si limita ad una comprensione superficiale e, di fatto, reazionaria e antidemocratica della decolonialità o dell’autodeterminazione. E si cade in una sorta di giustificazione progressista dell’etnonazionalismo, in identità tribali, prive di qualsiasi dimensione di giustizia sociale, modernizzazione e sviluppo.

 

È noto che molti partiti di sinistra ucraini sono stati banditi con l’accusa di essere filorussi o comunque quinte colonne della Russia. Cosa resta di questa galassia nella politica ucraina oggi, e come si relaziona con il conflitto in corso?

Va ribadito che alcuni dei partiti di sinistra che sono stati banditi dall’inizio dell’invasione erano stati molto importanti nei primi decenni dell’Ucraina post-sovietica. Il Partito comunista era il maggiore, ma anche il Partito socialista ucraino è stato particolarmente influente fino alla metà degli anni 2000. Negli anni Novanta, per esempio, questi partiti furono capaci di eleggere il leader socialista Oleksandr Moroz alla presidenza del parlamento, mentre il candidato del Partito comunista fu il secondo più votato alle elezioni presidenziali del 1999, raggiungendo il 38% al secondo turno. Questi partiti sono stati in grado di impedire alcune riforme neoliberiste o hanno guidato le proteste contro l’autoritarismo di Leonid Kuchma, presidente dell’Ucraina dal 1994 al 2004.

Tuttavia, nel corso degli anni 2010, si sono trasformati prima in partner minoritari delle forze di destra nel contesto di una politica polarizzata a livello regionale, e poi sono stati repressi ed emarginati. Il Partito comunista ha perso la sua posizione dominante nel campo “orientale” (i cosiddetti “filorussi”) a favore del Partito delle regioni, che rappresentava gli interessi dei capitalisti “politici” che facevano affidamento su un ampio segmento di lavoratori passivi, principalmente dell’industria pesante e del settore pubblico. I socialisti si sono invece uniti al campo “occidentale” dei neoliberisti e dei nazionalisti, vicini agli interessi del ceto medio professionale, del capitale transnazionale e di un segmento della classe operaia orientato al mercato del lavoro dell’UE; poi, una volta viste ignorate le proprie rivendicazioni, nel 2006 i socialisti si sono coalizzati con i comunisti e con il Partito delle regioni ritrovandosi ancora più emarginati. I comunisti avevano inizialmente solidarizzato – pur con scetticismo – con la protesta di Euromaidan, per poi distanziarsene dopo aver visto la predominanza in essa dell’agenda nazionalista e della retorica anticomunista e decidere di supportarne la repressione. Proprio questo posizionamento ne avrebbe favorito la trasformazione, all’indomani della rivoluzione, in facili capri espiatori: pur mancando un sostegno maggioritario per la messa al bando del Partito comunista, mancava anche chi era disposto a difenderlo – da cui la “decomunistizzazione”, un cambiamento simbolico usato per sostituire il vero cambiamento sociale atteso dalla piazza di Euromaidan.

Dopo l’invasione non solo il Partito comunista ma anche altri partiti – tra cui il più grande partito di opposizione, la Piattaforma di opposizione – Per la Vita – sono stati banditi perché presumibilmente filorussi, anche se questo partito ha condannato l’invasione ed è ora molto fedele a Zelenskyi. Al contrario, se nel territorio sotto il controllo del governo ucraino i comunisti non svolgono attività pubbliche (dopotutto l’età avanzata di molti membri e la loro adesione perlopiù identitaria ne rende poco verosimile la partecipazione in attività clandestine), nelle regioni occupate hanno spesso sostenuto l’invasione e l’hanno percepita come uno spazio per la propria militanza, arrivando anche ad aderire al Partito comunista della Federazione Russa e a partecipare alle elezioni locali. Non è chiaro quanti dei 100.000 iscritti dichiarati dal Partito comunista nel 2014 siano rimasti nel territorio sotto il controllo del governo ucraino.

Ci sono poi svariati gruppi marginali di sinistra, definibili come reti o iniziative informali piuttosto che come partiti o organizzazioni. Molti hanno sostenuto l’Ucraina promuovendo iniziative umanitarie o, soprattutto gli anarchici, arruolandosi nell’esercito – anche se non erano in grado di organizzare proprie unità indipendenti. Al contempo si segnala la presenza di alcuni gruppi marxisti-leninisti che hanno preso una posizione rivoluzionaria e disfattista contro le classi dirigenti di entrambi i paesi in conflitto.

 

Alla luce di questa spaccatura tra componenti aperte al libero mercato e particolarmente sensibili alla propaganda occidentale, e altre più legate alla Russia e alla nostalgia per l’era sovietica, si può interpretare il conflitto  come la definitiva scoppio di una guerra civile nel “mondo russo”?

È una posizione sostenuta da molti, e si può riassumere nell’idea che la popolazione russofona dell’Ucraina sia stata divisa prima dalla violenza di Euromaidan, poi dall’annessione della Crimea, poi dalla guerra nel Donbass e abbia preso parti diverse nel conflitto. L’argomento non regge però, a partire dal fatto che l’idea di Russkij mir, il “mondo russo”, non ha avuto grande significato in Ucraina prima del 2014, quando Putin ha iniziato a farne un tema centrale spingendo così alcuni filorussi a farlo proprio. Si tratta quindi di un’invenzione ideologica relativamente recente, incapace di radicarsi davvero nella società ucraina. 

Se si guarda la cosa da un punto di vista materialistico, è invece evidente che la guerra è la continuazione del conflitto di classe che attraversa l’intero spazio postsovietico fin dalla caduta dell’URSS. L’invasione dell’Ucraina non è che l’escalation più drammatica di questo scontro, già visto in Ucraina dal 2014, in Armenia nel 2018, in Bielorussia nel 2020, e anche nella stessa Russia tra l’opposizione e il regime. Adesso in Ucraina non si combatte più con i mattoni e i manganelli della polizia, ma con i carri armati, i razzi, i droni. Questo conflitto di classe è combattuto in primo luogo dai i capitalisti “politici”, quelli che sono colloquialmente chiamati “oligarchi”, ovvero la fazione della borghesia il cui principale vantaggio competitivo è l’accesso privilegiato allo stato. Come già detto, queste persone facevano affidamento sul sostegno passivo di un ampio segmento della classe operaia, principalmente nel settore pubblico e nell’industria pesante. Dall’altro lato della barricata troviamo invece il ceto medio professionale alleato con il capitale transnazionale, con la prospettiva di acquisire maggiore influenza economica, politica e culturale nonché l’integrazione con l’Occidente. L’intero cosiddetto “divario regionale” in Ucraina è in realtà un’articolazione nazionale specifica di questo conflitto di classe, definito da un’asimmetria che si ritrova nelle diverse capacità di universalizzazione dei loro interessi particolari, ragion per cui abbiamo avuto una società civile e una mobilitazione di protesta più forti sul versante filo-occidentale, mentre il campo orientale praticamente non aveva una propria società civile nonostante una grande forza elettorale.

Le origini di questo conflitto di classe risiedono nel declino del regime comunista, iniziato già alla fine degli anni Sessanta, quando – per dirla con Gramsci – il vecchio mondo stava morendo ma quello nuovo non era ancora emerso.  Ciò è anche all’origine della crescita di atteggiamenti filo-sovietici anche tra le giovani generazioni, frustrate dall’incapacità della classe dominante di offrire una visione migliore, sia che si parli dei promotori del capitalismo “politico” sia sul fronte filo-occidentale, dal momento che prima del 2022 l’offerta di integrazione nell’Unione europea non era mai stata particolarmente concreta. Proprio il movimento verso la direzione occidentale è stato marginalizzante per larga parte dei settori della classe operaia ucraina, ed è stato proprio in questo vuoto che ha avuto luogo la resurrezione non tanto della nostalgia sovietica, ma di un vero e proprio sentimento neo-sovietico. Nella domanda precedente mi riferivo ai circoli marxisti-leninisti, che in Ucraina non sono così popolari ma che tuttavia trovano un pubblico online relativamente ampio; in Russia e Bielorussia, invece, questi progetti si rivolgono a centinaia di migliaia, se non addirittura a milioni di persone. Non si tratta solo dei gruppi marxisti-leninisti e dei loro canali YouTube, ma anche di tendenze piuttosto significative nella cultura, nell’arte, nel cinema, nella musica, parzialmente strumentalizzate dal regime russo ma in larga misura cresciute organicamente dall’evoluzione della società.

 

Dallo scoppio del conflitto il governo ucraino ha fatto sempre più affidamento sui governi alleati per garantire la continuazione della sua resistenza, nonché su organizzazioni non governative e società di consulenza come BlackRock o il Centro per la ricerca economica e politica, che hanno promesso aiuti per la ricostruzione postbellica. Siamo di fronte alla prima forma di “neoliberismo bellico”, che si contrappone al più tradizionale keynesismo militare promosso da Mosca? Che impatto può avere questa differenza sui due paesi nel periodo successivo alla guerra?

Sono d’accordo, e in effetti già nel marzo 2022, nel momento in cui molte persone si aspettavano che la Russia crollasse sotto l’impatto delle sanzioni, ho suggerito che invece il Cremlino potesse comprare la lealtà dei suoi cittadini, consolidarsi politicamente e mobilitarsi ideologicamente. Questo è esattamente quello che è successo. Le spese statali per il complesso militare-industriale sono aumentate, il che ha avviato anche un circolo virtuoso sui settori civili dell’economia. Si tratta di qualcosa di più di un keynesismo militare: ci sono sempre più indicazioni di una redistribuzione dei beni e delle proprietà per consentire a Putin di creare un’élite leale su cui fare affidamento, rendendo il regime più forte. Ci sono anche problemi e contraddizioni reali con questo tipo di politica, in particolare la mancanza di manodopera per la Russia, per cui la strategia russa è tutto meno che certa nella propria efficacia a lungo termine. Sono convinto che la guerra sia stata un grande pretesto per riformare il capitalismo russo, e in questo l’Ucraina si è ritrovata ad essere uno strumento a tale scopo.

D’altra parte, gli esperimenti neoliberisti ucraini nel primo anno e mezzo di guerra sono stati un fatto atipico. Storicamente, gli stati durante i conflitti cercano di consolidarsi, procedendo con nazionalizzazioni, con la mobilitazione economica e l’aumento delle tasse – è un argomento classico della teoria sociale quello secondo cui è la guerra a creare lo stato. Ma l’Ucraina, almeno inizialmente, è andata nella direzione opposta, e solo quando gli aiuti provenienti dall’Occidente si sono rivelati piuttosto incerti ha progressivamente iniziato a riconsiderare alcune delle proprie politiche. Il motivo è la diversa coalizione di classe che controlla il paese. Se a imporsi è il campo del capitale transnazionale e del ceto medio professionale ci possiamo aspettare il neoliberismo, se invece a imporsi sono i capitalisti “politici”, è nel loro interesse lo stato, che gli offre vantaggi competitivi. 

Naturalmente non è solo una questione economica: c’è anche la questione della carenza, in Ucraina, di soldati motivati, pronti a soffrire e a rischiare la vita in prima linea. Nei primi mesi della guerra c’erano più volontari, mentre oggi lo stato deve intensificare la coscrizione forzata, altamente impopolare. Invece in Russia non ci sono stati ancora grossi problemi a mobilitare i soldati su base contrattuale, offrendo salari significativamente più alti della media, e non c’è stato nemmeno bisogno di ripetere la mobilitazione del 2022. Il keynesismo militare ha avuto un impatto sulle capacità della Russia di intraprendere una guerra più lunga,  e potenzialmente di aver ragione dell’Ucraina, anche se sostenuta da tutto l’Occidente – un sostegno che, come abbiamo visto, si è rivelato incerto.


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