Una sua aberrazione

Jacopo Di Miceli sul complottismo liberale che nega se stesso
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La storia è nota: nel 1938 un radiodramma di Orson Welles ispirato al romanzo di fantascienza La guerra dei mondi scatenò il panico fra la popolazione americana, che credette di ascoltare la cronaca in diretta di uno sbarco marziano. Peccato, tuttavia, che questa storia sia falsa. Nei giorni successivi alla trasmissione di Welles sulla CBS, i quotidiani riportarono notizie sensazionalistiche di cittadini terrorizzati che intasavano le linee telefoniche per chiamare la polizia, scendevano in strada causando disordini e incidenti automobilistici o accorrevano in ospedale per curare shock nervosi. Le indagini storiche hanno però fortemente ridimensionato l’eco dello sceneggiato, sia nel suo impatto emotivo sugli ascoltatori, che nei casi estremi si limitarono più prosaicamente a fraintendere un attacco alieno per uno tedesco, sia nella sua audience, circoscritta ad appena il 2% di chi aveva un apparecchio radio acceso. 

E allora perché si è originato questo mito che sopravvive ancora oggi? Secondo Jesse Walker, autore di The United States of Paranoia (Harper, 2013), siamo di fronte a una parabola non sulla credulità della gente comune, come ci è stato tramandato, ma sull’isteria antipopulista delle élite e della stampa, allora preoccupata di perdere il monopolio dell’informazione a favore dei nuovi mezzi di comunicazione, come la radio. Così, mentre la leggenda vorrebbe dimostrare quanto la massa sia ingenua e abbocchi ai racconti più fantasiosi, nelle sue pieghe esemplifica l’esatto opposto, cioè come le élite siano esse stesse disponibili a manipolare la realtà e a credere alle fake news se coerenti con la propria visione del mondo.

L’assunto elitista del complottismo in quanto malattia del popolo bue è ben radicato nell’immaginario collettivo, tanto che nel senso comune giornalistico Internet ha assunto il ruolo di principale destabilizzatore dell’opinione pubblica. Poco importa se esistono reti televisive che, come Fox News, negano apertamente l’influenza umana sul cambiamento climatico o supportano la teoria trumpiana sui brogli nelle ultime presidenziali americane. La tesi del complottismo come degenerazione anti-illuministica e illiberale resiste, ad ogni modo, anche nelle ricerche accademiche più recenti, forte di una traduzione che va da Popper a Hofstadter.

Un’indagine, condotta in ventisei Paesi e pubblicata nel gennaio 2022 sulla rivista Nature, mostra come la mentalità cospirazionista compia una specie di curva a “U” nello spettro politico: dall’estrema sinistra decresce verso il centro e poi ricomincia a salire fino a impennarsi quando si raggiunge l’estrema destra. Si confermerebbe quindi la natura del complottismo come ideologia dei “perdenti”, di chi è escluso dal potere e rielabora a posteriori le sconfitte elettorali con narrazioni del complotto.

Eppure, sono gli stessi autori dello studio a mettere in guardia dalla grande volatilità dei risultati. Fra il 2017 e il 2018, durante la campagna elettorale in Ungheria, ad esempio, la mentalità cospirazionista è stata inaspettatamente rilevata più fra i detrattori liberali di Viktor Orbán che fra i suoi sostenitori. Nell’opposizione antigovernativa circolavano infatti storie secondo cui il leader di Fidesz fosse un agente segreto russo e i suoi compagni di partito si recassero di nascosto in Austria per sottoporsi a cure psichiatriche.

Da tempo, d’altronde, la psicologia cognitiva sottolinea quanto sia facile inciampare nelle trappole logiche del pensiero complottista e anche la storiografia ha messo in luce come il complottismo abbia rappresentato una risorsa epistemologica per le élite politiche e culturali di fronte alle crisi.

Ma, proprio perché è stata la tradizione liberale postbellica, dopo gli orrori prodotti dalla paranoia totalitaria, a fissare i contorni semantici del complottismo e a stigmatizzarlo come forma perversa di conoscenza, non stupisce la refrattarietà con cui la classe dirigente ammette la propria vulnerabilità al contagio complottista. Le ragioni di questa negazione sono due: in primo luogo, una vulgata, ormai spazzata via dagli studi accademici degli ultimi trent’anni e tuttavia dura a morire, secondo cui sarebbero soltanto gli alienati, gli ignoranti e i marginalizzati a dar credito alle teorie del complotto, mentre la grande terra di mezzo degli integrati nel sistema ne sarebbe immune; e, in secondo luogo, il rifiuto di riconoscere il carattere ideologico del complottismo, un insieme cioè di valori e di idee difformi da quelle dominanti nella società e, per definizione, non falsificabili né accomodabili attraverso il bombardamento informativo, il debunking o qualsiasi altro percorso di riabilitazione forzosa.

Per paradosso, sono gli stessi professionisti della galassia complottista a essere in misura maggiore consapevoli delle implicazioni politiche della loro propaganda, al punto che sempre più apertamente la rivendicano nella sua etichetta di “complottismo”, in spregio a un mainstream che la estrometterebbe dal dibattito con epiteti ingiuriosi. Eppure, il liberalismo si ostina a non considerare il complottismo una violenta ribellione al sistema, quanto piuttosto una sua aberrazione, con il risultato di sottovalutarne portata e attrattività. L’idea invalsa dopo il crollo del comunismo e la “fine della Storia”, è che le ideologie siano bell’e che sepolte e che lo stesso liberalismo vittorioso non sia affatto ideologico, ma si limiti a implementare inevitabili politiche di buon senso e prive di alternative. In conseguenza di ciò,  si è da un lato creato un poderoso paradigma sanzionatorio che tende a squalificare come complottista ogni analisi critica dello status quo, anche laddove non vi sono evocazioni cospirative, per depotenziare emergenti competitori politici; dall’altro i liberali precipitano, a loro volta e senza avvedersene, in una goffa visione complottista quando la loro presa sulla realtà vacilla.

È il caso della sorprendente vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016, comunemente imputata all’interferenza di hacker e troll russi nella campagna elettorale, pur in assenza di prove chiare e definitive. Uno studio pubblicato quest’anno su Nature Communications ha infatti ridimensionato l’influenza social della propaganda russa, che avrebbe interessato non più dell’1% degli utenti totali e coinvolto individui che già simpatizzavano per il candidato repubblicano. Pur essendo inquietante, lo scenario di un’intromissione russa, però, rassicura, perché permette di eludere l’approfondimento delle cause profonde del malessere sociale, esternalizzando al nemico geopolitico per eccellenza la responsabilità della polarizzazione politica e degli imprevisti nel funzionamento del sistema.

Un principio logico identico ha di recente ispirato l’interpretazione della diffusione della propaganda di guerra russa in Italia, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina. L’impressione è che esista una “macchina”, controllata dal Cremlino, che, attraverso una fitta rete di agenti, inocula la controinformazione putiniana nel nostro Paese. Solo così si spiegherebbe perché l’Italia sia particolarmente ricettiva al messaggio russo e, retroattivamente, perché così tanti no-vax si siano convertiti al filo-putinismo.

Ancora una volta, però, così ragionando, non solo si trascura la spontanea propensione di molti a sposare l’autoritarismo, ma si favorisce anche lo sforzo propagandistico russo, che ha tutto l’interesse a essere dipinto come burattinaio delle opinioni pubbliche occidentali, pur essendo contemporaneamente incapace di manovrare quelle dei Paesi nell’orbita sovietica, dal Kazakistan alla stessa Ucraina.

In questo senso, i liberali sono accecati dallo stesso abbaglio dei complottisti: si illudono che il mondo sarebbero perfetto e le persone naturalmente buone se soltanto non intervenisse il male a guastarli. Nei momenti di crisi, cioè, gli individui sarebbero spogliati della loro capacità di agire in modo autonomo da una minacciosa forza esterna – il complotto – che ne assume il controllo. Né gli estremisti complottisti né, spesso, i liberali riescono a leggere gli eventi con le lenti delle scienze sociali e dell’ideologia, riducendo il tutto alla volontà di un gruppo malvagio. Ammettere l’esistenza di attori e idee collettive sarebbe inconcepibile, perché significherebbe privare gli individui del loro fondamentale attributo di poter cambiare da soli il corso delle cose. Per questo, secondo il professore di studi americani Timothy Melley, “possiamo ipotizzare che la paranoia sia la difesa – o forse persino una componente – dell’individualismo liberale”.

Se per l’estremismo politico complottista i grandi e impersonali meccanismi della Storia si riducono al disegno di una cricca oscura di cospiratori, per i liberali ogni presunto incidente di percorso nell’inevitabile progresso democratico è similmente visto come un complotto di Stati autoritari stranieri, una specie di ipnosi di massa non molto diversa da quella con cui Orson Welles avrebbe persuaso gli americani di un attacco marziano alla Terra. In fondo, accade proprio questo quando si eliminano le ideologie dal proprio orizzonte interpretativo: restano soltanto i complotti a guidare il mondo.


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