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Che cos’è la destra? Cos’è la sinistra? E cosa può insegnarci la resistenza tedesca a Napoleone nell’Ottocento su quello che sta succedendo nel mondo nel XXI secolo? Stefano Azzarà, professore di Storia della filosofia all’università di Urbino e allievo di Domenico Losurdo, spiega perché la distinzione ha ancora senso, cosa c’è dietro e dove ci porta.

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Per comprendere i conflitti cruciali del nostro tempo in una prospettiva filosofica è necessario, in via preliminare, ribadire una cosa che oggi non è più così scontata e cioè che la distinzione tra destra e sinistra, nata con la Rivoluzione francese e rimasta in vigore per tutto il XX secolo, ha ancora un senso e che queste categorie sono ancora utili e persino indispensabili. Certo, sappiamo che ormai da molti anni e da tendenze politiche anche molto diverse viene affermato che queste categorie non hanno più senso e che destra e sinistra non esistono più o si sono mescolate o sono state superate. E sappiamo anche che viene proposto di sostituirle con altre categorie, come alto e basso, o élite e popolo. È la cosiddetta proposta populista, che ha indubbiamente un suo fascino ma che è sbagliata e non funziona.

Non funziona in primo luogo perché il “popolo” del populismo – il popolo in quanto tale, inteso come unità compatta e indifferenziata – non esiste. Esso è se mai costitutivamente diviso, e cioè articolato e lacerato da relazioni di subordinazione e dominio. Non esiste, in questo senso, il fantomatico “99%”, perché in questo “99%” che annovererebbe gli esclusi dalla più ristretta élite globale noi troviamo tanto il rider quanto il padroncino che lo controlla tramite app, tanto il bracciante quanto il caporale che gli fa sputare sangue per conto del latifondista; così che la pretesa di rappresentare questo immaginario “popolo” finisce inevitabilmente, alla lunga, per abbracciare la rappresentanza dell’interesse della parte più forte del popolo, dato che lo sforzo di cancellare le classi sociali non può che fallire di fronte alla realtà della loro durezza ontologica.

In secondo luogo, non funziona perché rende letteralmente impossibile comprendere la tendenza storico-politica fondamentale del nostro tempo: la sconfitta delle classi subalterne nell’ambito del conflitto di classe alla fine del XX secolo, che ha comportato la fine della democrazia moderna e un gigantesco slittamento generale verso destra del quadro politico. La proposta populista impedisce di cogliere esattamente questa dinamica, che è poi l’essenziale. E in tal modo, potremmo aggiungere, rimuove di fatto la stessa realtà della lotta di classe, la quale dai populisti o da chi replica il discorso populista non viene di fatto riconosciuta o presa sul serio.

Le categorie di destra e sinistra sono dunque ancora valide e necessarie per comprendere il nostro tempo. E però, trattandosi di categorie che individuano un progetto politico e hanno una natura storica, il loro significato si sposta nel corso del tempo secondo i conflitti cruciali e i rapporti di forza sociali e va dunque inevitabilmente ridefinito in relazione ai mutamenti che sono intervenuti dalla fine del Novecento ai giorni nostri. In cosa consiste allora la distinzione di destra e sinistra oggi? Come dobbiamo ridefinire concretamente queste categorie? Le proposte sono tante, ma bisogna stare attenti a non passare da un opposto all’altro e a non incorrere in un altro errore, che tra i critici del populismo va oggi per la maggiore: quello per cui sinistra e destra sarebbero riconducibili rispettivamente al concetto di uguaglianza e a quello di libertà.

Il perseguimento dell’uguaglianza, in realtà, può tranquillamente intrecciarsi all’esercizio della discriminazione più brutale nei confronti di coloro che non sono ammessi nello “spazio sacro” dei pari. Pensiamo alla nascita e alla costruzione degli Stati Uniti, con la presenza di forme anche avanzate di eguaglianza all’interno della comunità bianca che però convivono con il genocidio dei nativi e con la schiavitù su base razziale dei neri. Uguaglianza non è dunque univocamente sinonimo di emancipazione ma può intrecciarsi a sua volta a forme anche feroci di emarginazione. E d’altro canto non avrebbe senso nemmeno regalare la bandiera della libertà e dell’individuo alla destra, la quale pensa certamente le idee di libertà e di individuo ma – e questa considerazione vale anche per il liberalismo – non è in grado di pensarle in chiave universale ma in una dimensione inesorabilmente particolare ed esclusiva.

Universale e particolare, perciò, universalismo e particolarismo: è questa la coppia concettuale alla quale finisce inevitabilmente per essere ricondotta la distinzione di sinistra e destra. La sinistra è quella parte filosofica, culturale e politica che riconosce il concetto universale di uomo e che, riconoscendo la realtà quantomeno politica dei concetti universali fondamentali, è dunque capace di liberarsi dell’immediatezza e di pensare il processo storico come un progetto di costruzione del genere umano, nel segno di una libertà concepita in una dimensione universale. La destra, invece, è quella parte filosofica, culturale e politica che, rimanendo legata all’immediatezza, nega il concetto universale di uomo, nega il progetto di costruzione del genere umano, nega la realtà politica dei concetti universali e li dissolve in una prospettiva nominalistica o relativistica che finisce per coincidere con l’apologia dei rapporti di forza vigenti. E che rimane ferma a forme di identità che coincidono con categorie particolaristiche che vengono a volte addirittura naturalizzate, come quella di “comunità” intesa nel senso regressivo della Gemeinschaft.

Tuttavia, questa prima definizione non basta. Per non rimanere alla superficie delle cose bisogna introdurre una variante, una complicazione, per capire la quale occorre fare riferimento a un momento storico estremamente interessante: l’invasione della Germania da parte della Francia napoleonica e i Befreiungskriege, e cioè le guerre di liberazione che ne sono seguite.

Con Napoleone la Francia, da paese rivoluzionario che ha abbattuto il feudalesimo e da repubblica democratica che aveva subito l’aggressione dell’Ancien régime, diventa a sua volta una potenza aggressiva imperiale che sottomette altri popoli, così che le stesse idee della Rivoluzione francese, i principi universali e i diritti dell’uomo, diventano armi di legittimazione ideologica di questa aggressione. Grande sarà la delusione soprattutto in Germania, dove la Rivoluzione francese aveva suscitato profonda attenzione e aveva attivato notevoli speranze di rinnovamento in un’intera generazione di intellettuali e un’estesa simpatia di massa. Da questa delusione sorge un movimento di resistenza allo straniero che, pur presentando anche dei caratteri progressivi – perché è un movimento di liberazione e perché riesce a unire intellettuali, ceti medi e persino classi popolari –, rovescia l’iniziale entusiasmo verso la Rivoluzione e i suoi ideali universalistici in una reazione di totale rigetto.

Si sviluppa a questo punto una vera e propria gallofobia che è anche una teutomania: alle idee “francesi” si contrappone ora il mito della purezza e dell’autenticità germanica, dell’identità della nazione, da preservare e mantenere intatta nella sua peculiarità rispetto ad ogni contaminazione con lo straniero. L’opposizione a Napoleone e la giusta lotta per la liberazione dei territori tedeschi dall’occupazione, in altre parole, prende ben presto la forma di una negazione indeterminata e immediata: di un rigetto dell’universalità in quanto tale e, in reazione, dell’assunzione di una prospettiva tutta particolaristica. Una prospettiva che contesta non solo Napoleone ma anche la Rivoluzione; non solo la Rivoluzione ma anche la modernità come progetto razionale di emancipazione. 

Come spiegare questo fenomeno nel quale destra e sinistra sembrano confondersi e un movimento potenzialmente progressivo assume un indirizzo reazionario? Siamo di fronte a un ribaltamento assai caratteristico della dialettica della storia: nella sua tensione fanatica, l’universalismo francese ha pensato se stesso come un universalismo assoluto, sciolto da ogni vincolo, da ogni condizione, dunque, come una forma di universalismo astratto, valido per tutti i popoli e le nazioni, in ogni tempo e in ogni luogo. In altri termini, l’universalismo rivoluzionario pensa se stesso e agisce in una maniera immediata. Rimuove, cioè, la mediazione, il lavoro del negativo, pretendendo di imporsi qui ed ora al mondo nel suo complesso. L’universalismo rivoluzionario, a questo punto, si è trasformato e ha mutato il proprio significato: è diventato, cioè, un universalismo aggressivo, un universalismo imperiale. E proprio per questa pretesa di assolutezza si è rovesciato esso stesso in una forma di particolarismo, spostandosi da sinistra a destra.

Questo universalismo imperiale suscita inevitabilmente una reazione di segno opposto, di tipo particolaristico e fondamentalistico che a questa immediatezza ne contrappone una ancora più immediata e che dunque si colloca ancora più di destra. Una reazione che non contesta questa falsa universalità aggressiva, ma l’universalità in quanto tale e ogni prospettiva di costruzione del genere umano e lo fa proprio in nome della peculiarità dei popoli. Siamo di fronte, perciò, a due tipi di destra: tanto la reazione particolaristica e fondamentalistica dei fanatici dell’identità germanica, quanto l’universalismo rivoluzionario che nella sua immediatezza si è fatto aggressivo. 

Tutto questo non riguarda però solo la Francia e la Germania nell’epoca napoleonica ma è accaduto anche per la nostra generazione. Alla fine della Guerra fredda, l’universalismo liberaldemocratico trionfante dell’Occidente si è sentito legittimato a ritenere assolutamente validi i propri valori e a imporli al mondo intero, dando vita a un’aggressione imperiale sul piano culturale, ideologico e anche militare. Come in epoca napoleonica, all’universalismo imperiale si è subito contrapposta una reazione particolaristica che – alla periferia dell’Impero ma anche nel suo centro, presso coloro che dalla gestione neoliberale della globalizzazione hanno avuto solo danni, come i ceti medi, le classi subalterne, i piccoli imprenditori – ha dato vita a una nuova ondata di destra, e cioè a quei movimenti populisti e sovranisti che contestano l’universalismo implicito nelle tendenze cosiddette “globaliste” e gli contrappongono la rivendicazione del primato dell’identità particolare immediata delle singole nazioni o civiltà. Un’ondata di destra che, tra l’altro, ha finito per attrarre nella propria cerchia di egemonia anche molti ambienti in precedenza orientati a sinistra che, orfani di ogni prospettiva politica autonoma, non trovano altro rifugio se non lì dove è più facile, ossia nella rivendicazione delle forme di identità più stabili e dei valori tradizionali minacciati dal “globalismo” e percepiti come trincee quantomeno culturali di resistenza a un mondo che cambia ad un ritmo vertiginoso.

Abbiamo quindi a che fare con due destre. Oggi come ieri, però, l’alternativa alla destra dell’universalismo imperiale non è il rifiuto di ogni universalismo. Non si risponde, cioè, andando ancora più a destra verso il fondamentalismo, contrapponendo all’immediatezza del fanatismo liberal-democratico una forma di immediatezza ancora peggiore perché naturalistica. La risposta sta invece nella costruzione di un nuovo universalismo, di un universalismo autentico, compiuto e concreto, ossia di un universalismo consapevole della totalità e che concepisce il concetto universale di uomo e i diritti umani come risultato, come progetti da costruire nella storia in maniera condivisa, senza imporre agli altri popoli i propri valori e a partire dal riconoscimento della coesistenza delle nazioni e delle loro peculiarità. In un percorso cooperativo che muove dall’idea di coesistenza pacifica e coincide con un gioco a somma positiva che, nel perseguire l’unità del genere umano, allude anche al progetto di un’altra globalizzazione possibile.


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