Il mondo post-COVID ci sembra un altro mondo, e un altro capitalismo. Vediamo chiaramente la fragilità delle filiere, il ritorno dello Stato dopo decenni di neoliberismo, la crisi della globalizzazione. Ma poi i nostri prodotti arrivano ancora dall’altra parte del mondo nei container, il mondo è ancora globalizzato e per quanto si parli di ritorno dello Stato, il nuovo populismo ha il volto anti-Stato del nuovo presidente argentino Javier Milei. È un’allucinazione o le cose sono più complesse di così? Ne abbiamo parlato con Quinn Slobodian, storico canadese tra i massimi studiosi mondiali del neoliberismo, autore di Globalists (Meltemi, 2021) e Il capitalismo della frammentazione (Einaudi, 2023).
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Non possiamo non cominciare dal neopresidente argentino Javier Milei, capace di vincere le elezioni con una piattaforma insolita: una forma populista del neoliberismo radicale. Lui stesso si è descritto come un “anarco-capitalista” intenzionato ad eliminare intere parti della macchina dello stato ma è al contempo una figura alla Trump che si nutre del risentimento del ceto medio impoverito. Come dobbiamo interpretare questo mostro?
Penso che il modo migliore per rispondere a questa domanda sia tornare a un’intuizione che il padre dell’anarco-capitalismo, Murray Rothbard, ebbe negli anni Novanta, quando lamentò che la causa libertariana era stata ostacolata dall’eccessiva enfasi su quello che lui chiamava l’approccio educazionista. È l’idea, sostenuta da Friedrich Hayek negli anni Quaranta, per cui si poteva combattere il socialismo e le idee collettiviste partendo dall’alto e dal far cambiare idea alle élite intellettuali: professori, giornalisti, scrittori. Al contrario, Rothbard sostenne che proprio queste élite erano le uniche rimaste a credere ancora al socialismo e che non potevano essere loro il bersaglio della propaganda. Si sarebbe invece dovuto partire dalla gente comune, in particolare dai poveri e dalla classe operaia: persone che secondo Rothbard erano più vicine ai principii della competizione sociale darwinista, al cane mangia cane, dunque più individualiste e autosufficienti e meno abituate a fare affidamento sulla benevolenza del governo o sullo stato.
È quello che lui chiamava “populismo di destra”, un modello che è stato ripreso in parte dal candidato presidenziale del Partito repubblicano statunitense Pat Buchanan, di cui Rothbard era stato consigliere all’inizio degli anni Novanta, e in modo molto più diretto da Javier Milei. Il risultato finale non è radicalmente diverso dal neoliberismo tradizionale, e le politiche di Milei saranno probabilmente molto vicine a quelle che avrebbe portato avanti Mauricio Macri [presidente dell’Argentina dal 2015 al 2019, neoliberale]. Tuttavia, a livello superficiale, l’estetica fatta di provocazioni anti-autoritarie e disprezzo per femminismo e ambientalismo costituiscono un nuovo importante serbatoio di legittimità per una forma altrimenti seccamente tecnocratica di gestione economica. In altre parole, il punto non è tanto che il presunto “anarco-capitalismo” di Milei e il neoliberismo tradizionale siano la stessa cosa, quanto che si completano a vicenda e vivono in simbiosi. I mercati stanno recependo il messaggio e per il momento sono contenti di Milei. Alla fine, gli argentini otterranno sostanzialmente le stesse politiche che hanno subito per decenni, perché le forze che hanno determinato il loro destino finora sono molto più grandi della sola presidenza.
La figura di Milei e la sua vittoria alle elezioni sono particolarmente interessanti anche perché negli ultimi anni si è parlato molto di “fine del neoliberalismo” e di “ritorno dello Stato”. Tale idea si è ulteriormente rafforzata in seguito al Covid e alla guerra in Ucraina, due eventi che hanno mostrato la debolezza degli Stati contemporanei così come la crescente necessità per essi di sviluppare la propria capacità di mobilitare risorse se vogliono sopravvivere nel mondo contemporaneo. Eppure i Milei vincono le elezioni e lo Stato non è ancora ritornato. Perché?
Il primo problema di questa interpretazione è l’implicazione che il neoliberismo sia sinonimo di qualcosa chiamato “mercato”, quindi riportare in vita “lo Stato” significherebbe invertire il neoliberismo. Si tratta di un errore fondamentale ma tristemente presente e diffuso. Da oltre vent’anni gli studiosi del neoliberismo insistono invece sul fatto che questo non funziona eliminando lo Stato, ma ridefinendolo. In altre parole, la questione non è solo il “ritorno dello Stato” ma il ritorno dello Stato a quale scopo. È certamente vero che dopo la pandemia, in Occidente, c’è stata una rinnovata attenzione alla politica industriale, all’uso della politica commerciale e ai sussidi statali per ripristinare la produzione e diminuire la dipendenza dalle catene di approvvigionamento globali per i prodotti essenziali. Ma gli strumenti a disposizione degli Stati per raggiungere questi obiettivi sono spesso molto limitati dall’infrastruttura neoliberista all’interno della quale essi operano. La Germania è un buon esempio di questo: il suo tentativo di investire nelle infrastrutture per la transizione ecologica si è recentemente scontrato con il freno al debito pubblico che limita la spesa attraverso una clausola costituzionale. Qui è dunque “lo Stato” che blocca “il ritorno dello Stato” – da cui emerge come appunto si tratti di una semplificazione.
È inoltre facile sopravvalutare i cambiamenti di leadership e proposte politiche, mentre è molto più importante, invece, considerare i vincoli legali e procedurali entro cui queste devono muoversi pur cercando di ottenere risultati diversi dai predecessori. In questo senso il successo di figure come Milei non è sorprendente. Permette una sorta di catarsi collettiva e un’impressione superficiale di cambiamento rivoluzionario che però non andrà a toccare nessuno dei modi fondamentali in cui è organizzata l’economia politica. I populisti di destra sono destinati a essere gli unici ad avere successo, perché offrono la possibilità di scaricare la rabbia repressa – spesso su minoranze e gruppi vulnerabili – senza cambiare veramente il sistema che l’ha prodotta.
La principale teoria esposta nel tuo nuovo libro è quella del “capitalismo della frammentazione”, per cui staremmo entrando in un’epoca in cui gli stati nazionali verranno soppiantati da territori più piccoli senza alcuna regolamentazione al mercato, né welfare, né democrazia. Da dove arriva questa tesi e come si manifesta sul piano pratico?
L’origine del libro era l’insoddisfazione per il modo in cui veniva descritta la politica intorno al 2016: all’epoca del voto sulla Brexit e dell’elezione di Trump, era diventato un luogo comune diagnosticare una “reazione” contro il capitalismo globale e il riemergere del nazionalismo. Ci è stato spesso raccontato di un “ritorno agli anni Trenta”, quando si potevano immaginare una serie di nazioni intrappolate dietro muri tariffari e barriere al libero flusso di beni e capitali. In realtà, dal 2016 gli attori più importanti della destra populista sono stati spesso più interessati ad accelerare le forze del capitalismo globale che a rallentarle o invertirle. Il mio libro aggiunge una terza categoria alla scelta binaria fra “globalismo” e “nazionalismo”, tra “mondo” e “nazione”: quella di “zona” – intesa come zona economica speciale, zona di trasformazione delle esportazioni, zona di imprese urbane o centro finanziario offshore. Quando si usa la categoria della zona si scopre che il capitalismo funziona attraverso l’arbitraggio tra diverse giurisdizioni all’interno delle nazioni, e che i populisti di destra sono stati grandi campioni della zonizzazione dei propri paesi.
Da Viktor Orbán a Rishi Sunak a Giorgia Meloni, la destra populista è stata più iper-capitalista che anti-capitalista. Tutti i suoi rappresentanti hanno sostenuto l’idea di dividere il proprio paese in nuove giurisdizioni per attrarre capitale mobile straniero. In questo senso il mio libro non immagina tanto un mondo in cui la nazione non esiste più, quanto un mondo in cui le nazioni continuano ad esistere ma sono come frazionate in tanti spazi di diritto eccezionale e in cui i governi eletti hanno sempre meno potere sulle decisioni economiche che avvengono all’interno dei loro confini. Il mio libro precedente, Globalists (Meltemi, 2021), era incentrato sulle sulle organizzazioni sovranazionali che tendevano alla minimizzazione della democrazia, mentre questo si concentra sulle giurisdizioni subnazionali che ne erodono la possibilità. Continuo a pensare che con la lente della zona possiamo capire molto di più sulla natura della politica di destra contemporanea di quello che capiamo se pensiamo in termini di nazione.
A prima vista quest’idea di “capitalismo della frammentazione” sembra in contraddizione con quella, enunciata da David Harvey e Giovanni Arrighi, secondo cui lo sviluppo de capitalismo lo porta a operare su scale geografiche sempre più ampie – dalle città-stato italiane del Trecento, alla Gran Bretagna, all’impero globale degli Stati Uniti. Come si conciliano le due cose?
Non penso ci sia alcuna contraddizione, anzi: la mia tesi si basa in gran parte sul lavoro di geografi e antropologi come David Harvey, Jamie Peck, Saskia Sassen, Aihwa Ong. Ciò che questi studiosi affermano è che, per dirla con le parole dell’antropologo James Ferguson, il capitale non scorre ma salta. In altre parole, anche nell’epoca dei grandi imperi mercantili, questi funzionavano attraverso piccoli nodi di concentrazione di capitali e attività, che svolgevano particolari funzioni all’interno del sistema mondiale. Possiamo vedere questo aspetto nell’enorme diversità dei sistemi politici del XVIII-XIX secolo: dalle colonie ai porti franchi alle concessioni ai protettorati. Quella che io chiamo “zonizzazione” si muove appunto verso la ricreazione di questo patchwork eterogeneo.
Ciò che il mio libro vuole dimostrare è che tale processo avviene in due direzioni. Prima verso l’alto, perché il capitale diventa de-territorializzato e trasferibile attraverso la sua codificazione giuridica. E poi verso il basso, quando il capitale si ri-territorializza, ovvero scende sulla terra in luoghi specifici, a volte anche nel paese di origine, ma in modo tale da essere libero da alcuni dei vincoli che precedentemente lo ostacolavano. Nelle zone, quindi, il capitale riceve nuove protezioni mediante involucri legali e istituzionali progettati per rendere le zone il sito preferito dell’attività economica. Commettiamo un errore quando pensiamo agli imperi della prima età moderna come a grandi spazi omogenei: l’essenza dell’impero, infatti, è governare attraverso la differenza. La coesistenza delle zone all’interno di un’economia globale non è molto diversa.
Negli ultimi anni si è parlato molto dell’idea di un “nuovo Medioevo”. Il libro più importante sul tema è probabilmente Nuova era oscura (NERO, 2019) di James Bridle ma troviamo suggestioni simili anche in altri autori. Il punto principale di questa tesi sarebbe che il presente stia diventando sempre più simile al Medioevo sotto svariati punti di vista – dal potere sregolato delle grandi aziende private e degli oligarchi dell’informatica alla debolezza dello stato. La tesi del tuo libro ha qualcosa a che fare con tutto questo?
Nel mio libro ci sono riferimenti al Medioevo ovunque. È interessante notare però che, mentre la maggior parte degli autori utilizzano il periodo medievale perlopiù come esempio negativo, i libertariani di cui parlo nel mio libro lo vedono come un modello positivo del mondo che vogliono creare. L’essenza del Medioevo, ai loro occhi, è la diversità delle forme di governo e la natura spesso privatizzata della sovranità. In un’epoca in cui, come nel caso di Lichtenstein all’inizio dell’era moderna, un principato può essere acquistato e venduto da un membro della corte, il potere degli attori privati è notevolmente aumentato e l’idea di un veto democratico o della sovranità popolare semplicemente non è più valida. In questo senso, il mio libro non è tanto una descrizione dell’economia medievale intesa come un sistema di controllo in continua espansione da parte di attori privati, come la intendono gli autori – ad esempio Yanis Varoufakis – che parlano di tecnofeudalesimo. Si tratta più della qualità medievale della frammentazione e della possibilità di spostarsi tra giurisdizioni rimanendo legati a una Lex Mercatoria condivisa.
I personaggi che cito nel mio libro si approcciano a questo nuovo Medioevo in modi sorprendenti. A volte letteralmente indossando una toga e assumendo la personalità di un poeta berbero dell’XI secolo, come fa David Friedman, il figlio di Milton, uno dei principali pensatori dell’anarco-capitalismo nonché un appassionato di rievocazione storica a tema medievale. Come sostengo nel libro, per lui il larping e il cosplay sono una forma seria di politica. Altri trovano una versione della decentralizzazione dell’autorità politica medievale nella Somalia degli anni Novanta, che vedono come un laboratorio politico. Altri ancora, trovano ispirazione nella pratica molto meno eccentrica di trasferirsi in una comunità recintata che alcuni libertari vedono come una sorta di realtà prefigurativa di un mondo in cui unità sempre più piccole sono in grado di elaborare un insieme di leggi personalizzate e su misura che possono diventare attraenti per i clienti che si spostano con la loro immaginazione da un insediamento collinare a un altro, alla ricerca di maggiori profitti, meno tasse e protezione dalla minaccia sempre presente del collettivismo. Queste fantasie sul nuovo Medioevo si basano su omissioni, esagerazioni e incomprensioni, ma sono proprio questi punti ciechi che trovo più avvincenti. Possiamo vederli come sintomi delle patologie del mondo capitalista in cui viviamo e studiandoli possiamo comprendere l’eziologia più profonda della nostra condizione attuale con la speranza di combatterla.