Delle svariate crisi in cui versa il mondo contemporaneo, nessuna è più urgente e potenzialmente distruttiva di quella climatica. Il tema, però, finisce sempre in secondo piano, un po’ a causa di altre questioni che appaiono più immediate ma anche per l’incapacità dei movimenti ambientalisti radicali di creare un vero movimento di massa a sostegno della propria causa. La sola ricerca dell’attenzione mediatica ha ridotto la causa ecologista ad un fenomeno culturale, e mai come oggi è servito un ripensamento delle strategie. Valerio Renzi – giornalista esperto di estrema destra e movimenti sociali – analizza le complesse cause di questo cortocircuito e spiega come andarvi oltre.
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È inutile girarci attorno: i movimenti per la giustizia sociale e climatica non stanno ottenendo dei grandi risultati. Il regime di guerra in cui siamo immersi sembra aver spazzato via la possibilità di imporre nell’agenda politica la riconversione ecologica e i successi elettorali delle destre tra l’Europa e gli Stati Uniti hanno chiuso quella breve e timida parentesi aperta dalla gestione della pandemia di Covid-19, in cui un Green Deal sembrava un orizzonte raggiungibile. Il keynesismo all’orizzonte è quello delle fabbriche di armi e non dei pannelli solari.
Ma non c’è solo questo. Oltre alla congiuntura storico-politica, non si stanno rivelando utili nemmeno gli elementi soggettivi che hanno a che fare con le modalità di organizzazione, con la strategia e la tattica. Guardando al nostro paese poi la situazione è abbastanza deprimente: dopo un ciclo di mobilitazione dominato prima dalle piazze giovanissime di Fridays For Future e poi dalla disobbedienza civile nonviolenta di piccoli gruppi come Extinction Rebellion e Ultima Generazione, la legislazione contro le azioni dirette degli attivisti si è aggravata con l’inserimento di aggravanti specifiche, il tutto mentre si riduceva impietosamente l’incisività mediatica delle loro azioni. Cosa non sta funzionando? È il caso di cominciare a chiedercelo, perché la coazione a ripetere è un nemico da cui dobbiamo guardarci se vogliamo davvero cambiare le cose.
Come far saltare un oleodotto (Ponte alle Grazie, 2022) è un libro diventato immediatamente un classico tra collettivi e attivisti. In questo saggio molto narrativo e poco accademico, l’autore Andreas Malm – un attivista e docente di Ecologia umana all’Università di Lund, in Svezia – muoveva una lunga e articolata critica ai movimenti che si battono per fermare la crisi climatica. Malm rimproverava a Extinction Rebellion e alle sigle che ne condividono la filosofia, di mettere in campo pratiche di disobbedienza civile moderate fino al punto da diventare risibili. Se nessuno ti ascolta, e il problema si fa sempre più drammatico, perché dovremmo avere paura di alzare il livello della lotta?
Pur rimanendo rigidamente nell’alveo della nonviolenza, l’autore distingueva tra l’esercizio della forza e quello della violenza. Danneggiare e colpire delle cose, prendere di mira la proprietà privata e non le persone, gli sembrava un livello di violenza decisamente accettabile. Nell’esporre il suo ragionamento faceva ricorso ad esempi illustri come le suffragette: e infatti in un anno e mezzo, tra il 1913 e il 1914, la Women’s Social and Political Union rivendicò 337 attentati incendiari. Ad andare a fuoco erano edifici abbandonati, rimesse, teatri, uffici postali, alberghi e così via. Non si contò neanche una vittima. Niente a che vedere con l’immagine che ci facciamo normalmente delle suffragette: donne eroiche e decise, capaci anche di farsi picchiare dalla polizia e arrestare, ma pur sempre delle borghesi alla Winifred Banks – la mamma dei bambini protagonisti di Mary Poppins – che lascia a casa le proprie domestiche mentre lei va a manifestare.
Il pacifismo strategico del movimento viene duramente criticato, e gli esempi non mancano nemmeno in relazione alla causa ambientalista: veniva citata, ad esempio, la storia delle attiviste del Catholic Worker Movement Jessica Reznicek e Ruby Montoya. Nel 2016, le due militanti arrivarono ad incendiare i macchinari impiegati per la costruzione del Dakota Access Pipeline, contro la cui costruzione si stanno battendo in quel momento i nativi americani della riserva di Standing Rock in North Dakota. Qualche mese dopo tornarono in azione, sabotando ripetutamente l’oleodotto e bucandone le condutture con saldatrici ossiacetileniche. Dopodiché altre azioni incendiarie. Il sabotaggio era l’unica strada contro l’opera secondo le due attiviste, che pure condividevano la filosofia del movimento, da sempre radicalmente pacifista e antimilitarista. Ma la proprietà privata non è mica sacra. Andando incontro a una lunga detenzione, dopo aver pubblicamente rivendicato le loro azioni, la coppia di sabotatrici ha affermato che il loro unico rammarico era di “non aver agito abbastanza”.
Il libro interroga il movimento anche su due altri punti estremamente importanti. Il primo punto è il rapporto con la classe lavoratrice – sia relativamente alla composizione del movimento che negli effetti prodotti dalle azioni dirette – e quindi le questioni del neocolonialismo e del razzismo, che devono essere sollevata all’interno di un movimento composto in larga parte da bianchi. Sono questioni su cui in questi anni Extinction Rebellion e anche Fridays For Future si sono a lungo intrattenuti a riflettere, come emerso con maggior chiarezza nella partecipazione nelle mobilitazioni contro il riarmo e il genocidio in Palestina, ma anche in alcuni cicli di scioperi sindacali in Europa e negli Usa. Se sui due punti sopracitati la riflessione è stata sicuramente più ampia, attorno alla critica del pacifismo strategico come unica tattica possibile per il movimento, il dibattito non è invece stato all’altezza della situazione.
La stessa impostazione teorica e pratica è stata trasferita dall’esperienza di Extinction Rebellion ai movimenti del network A22 che ne hanno preso il testimone conducendo azioni simboliche e mediatiche sempre più eclatanti, ma finendo così per tralasciare la mobilitazione di massa e spingere verso una professionalizzazione sempre più marcata della disobbedienza civile climatica. Le sigle legate ad A22 hanno lanciato vernice sui Girasoli di Vincent Van Gogh, colorato di nero e di rosso le acqua di molte fontane, bloccato le strade e così via – in Italia da questa rete è gemmata l’esperienza di Ultima Generazione. Per un po’ tutto questo ha anche funzionato, almeno a livello mediatico e di dibattito. Poi, il nulla.
L’idea di Malm è semplice: il livello di conflittualità nei confronti del capitalismo fossile deve aumentare se non si ottengono risultati. Un ragionamento che, in effetti, non fa una piega: la clessidra scorre, il potere economico e politico dei padroni del petrolio, del gas e del carbone è forte, ed è chiaro che non faranno un solo passo indietro solo grazie alle mobilitazioni e le tattiche previste dal pacifismo strategico. Servono le manifestazioni di massa, ma anche i sabotaggi di oleodotti, nella consapevolezza che la repressione aumenterà ma che bisogna attrezzare il movimento se questo vuole essere efficace e raggiungere gli obiettivi prendendo di mira (anche) con azioni violente le infrastrutture del capitalismo estrattivista. La lotta per fermare il cambiamento climatico è fatta anche di numeri, conti e bilanci, e oggi sappiamo che sul globo, tra superficie e fondale marino, ci sono 425 bombe di carbonio – un’espressione con cui si individuano progetti di estrazione di fonti di energia fossile che, se portati avanti, vanificherebbero ogni tentativo di rimanere entro i limiti degli Accordi di Parigi. La pessima notizia è che il 60% dei progetti estrattivi è già stato avviato.
Come far saltare un oleodotto è un libro che si inserisce in un dibattito tuttora in corso all’interno del movimento per la giustizia climatica sulle pratiche migliori e più efficaci per lottare. Malm sostiene la necessità di una lotta radicale e nonviolenta, che prendesse di mira la proprietà facendo da avanguardia per una mobilitazione politica che sia fatta anche di manifestazioni di massa, petizioni, azioni di ogni tipo. Una strategia di mobilitazione dunque che non rinunci in ossequio ad un’acquiescenza imposta dall’avversario che demonizza ogni forma di protesta radicale, o per paura delle conseguenze, a mettere in campo l’azione diretta per fermare l’estrazione di combustibili fossili. Ma soprattutto il volume è un invito a mobilitarsi, a imparare a combattere dentro l’orizzonte del nostro presente senza rifugiarsi in comode certezze, dando argomenti e fiducia a chi non si vuole arrendere all’inevitabile.
Alla fine del libro l’autore si chiedeva “quando parte il contrattacco?”, una domanda a cui tutti noi cerchiamo una risposta vedendo battaglie limitate in partenza spegnersi dopo brevi apici di pubblico, rendendoci conto che saperi e battaglie si sedimentano lentamente, troppo lentamente, rispetto a quello che ci servirebbe – e guardando la violenza dei nostri nemici dispiegarsi quasi senza ostacoli. Per provare a rispondere alla domanda Malm parte da un romanzo bello e importante, Il ministero per il futuro di Kim Stanley Robinson. Un libro che finisce negli scaffali sotto l’etichetta di fantascienza, ma che è un patchwork testuale in cui attorno ad una trama fantastica, si sviluppano continue digressioni scientifiche, storiche ed economiche. Si tratta di un racconto di come la società umana potrebbe superare la crisi più grave della crisi climatica, esplorando nuove strade per imboccarle con decisione. L’ipotesi narrativa parte da un’eccezionale ondata di calore che nel 2025 colpisce l’India, tanto violenta da uccidere 20 milioni di persone. In poche parole, quando la temperatura di bulbo umido, che si calcola combinando calore e umidità, supera i 35° il corpo umano non riesce a raffreddarsi autonomamente e lo scambio termico non funziona più. Il risultato è la morte dell’organismo, anche quando è perfettamente sano. La scintilla creativa, secondo quanto raccontato dallo stesso autore, viene da un articolo scientifico secondo cui in pochi anni tali temperature critiche diventeranno la norma, e in effetti l’anno successivo all’uscita del libro i 35° vengono sfiorati in diverse aree del Sud-Est asiatico. Il punto non è quindi se, ma quando il futuro del romanzo diventerà realtà.
Un passaggio in particolare ha colpito l’immaginario di Malm: “Giovani indiani traumatizzati, inaspriti, infuriati fondano il movimento dei Figli di Kali, che prende il nome dalla dea indù della morte. Proclamano l’arresto immediato della combustione fossile e lo mettono in pratica. Le varie cellule si sparpagliano e attaccano infrastrutture e macchinari del fossile.” Ma nel libro di Robinson c’è molto di più che la sola resistenza popolare nel rispondere ad un cambiamento globale così repentino e radicale. La parte più interessante di come Robinson immagina il cambiamento credo che sia invece l’inedita alleanza tra alto e basso: la protagonista del romanzo è Mary Murphy, ex ministra socialdemocratica dell’Irlanda, che finisce a capo del Ministero del Futuro, come è ribattezzata dai media l’agenzia con sede a Zurigo chiamata a promuovere il cambiamento. L’istituzione, inaugurata per vigilare sul rispetto degli Accordi di Parigi, è una struttura debole e con pochi fondi, senza poteri coercitivi, ma è fatto da uomini e donne che credono nel loro lavoro, e sono in molti disponibili a giocare su più piani per ottenere una vittoria. Piano piano emerge come i movimenti popolari, e perfino le azioni armate dei Figli di Kali, sono sostenuti da una rete segreta che ha i suoi terminali anche nel Ministero del Futuro. Quando Murphy lo scopre rimane sconvolta, ma decide di non denunciare i suoi collaboratori coinvolti e, anzi, li sostiene. Le azioni di lotta più dure, e anche le più sanguinarie, sono rese possibili dunque da una complicità che arriva a più livelli sicuramente anche dal governo indiano.
Eppure, proprio come Extinction Rebellion, anche Malm guarda un solo lato della questione, scegliendo a sua volta di non articolare una strategia e una critica sull’utilizzo delle leve dello Stato e del governo per mettere in atto il cambiamento. Non si discute mai, insomma, la conquista del potere, nei confronti del quale si mostra quasi naturalmente diffidente. Il trauma lasciato dal fallimento del socialismo reale continua in questo senso a proiettare la sua ombra sul nostro presente, inibendo chi promuove un’agenda egualitaria dal misurarsi con il problema della conquista e l’utilizzo del potere dello Stato. Nel caso specifico non si capisce come inasprendo solo le azioni di lotta, il nemico debba accettare di mettere fine al capitalismo fossile e, alla fine, il dibattito si arena sulla radicalità delle pratiche; la discussione, così, si avvita su come sabotare efficacemente una betoniera e viene ignorata ogni possibile strategia che elimini in partenza il problema.
Si afferma così uno schema dove esiste solo la tattica e non c’è la strategia, per cui il potere è costitutivamente pervaso dal male e la protesta è costitutivamente buona – una situazione in cui, se mai vinceremo, sarà solo per gentile concessione di chi detiene il potere o perché questo ha paura. Ma come potremmo spaventare chi detiene il potere se tanto non siamo in grado di strapparglielo dalle mani con la forza del consenso democratico, ribaltando i rapporti di forza nella società? Si potrebbe contestare questo punto di vista dicendo che ormai lo stato nazione ha un potere limitato. Vero, ma ciò non toglie che è entro le istituzioni che abbiamo uno spazio per organizzarci e rafforzare i movimenti, i sindacati e la società civile, cominciando a segnare qualche vittoria sul tabellone per la nostra parte.
La vittoria del Ministero del Futuro arriva intrecciando l’esercizio del potere e le leve delle organizzazioni statali e sovranazionali, con i movimenti popolari e le organizzazioni radicali. Un po’ come vediamo in A New Hope – la prima pellicola della saga di Guerre Stellari arrivata sul grande schermo nel 1977 – in cui le speranze della Resistenza arrivano dall’incontro di un gruppo di avventurieri ai margini del sistema con quello che resta della tradizione repubblicana e democratica. Allo stesso modo, una strategia efficace per i movimenti per la giustizia sociale e climatica deve coniugare strategie diverse, che tengano conto del consenso e dell’utilizzo anche del potere dello Stato. Per farlo sarà necessario inaugurare una stagione di creatività organizzativa, con il coraggio necessario per lasciarci alle spalle piccole tradizioni e certezze maturate negli ultimi decenni. Inasprire ed estendere la mobilitazione e l’azione diretta dunque come teorizza Malm, ma anche porsi il problema di come ribaltare i rapporti di forza sul terreno delle istituzioni e conquistare le leve statali per produrre un cambiamento, per garantire l’agibilità politica e la libertà a chi protesta. Chi dovrebbe farlo al posto nostro? Il sabotaggio rischia altrimenti di rimanere solo un bel gesto.