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Il primo ministro ungherese Viktor Orbán è appena stato in visita a Roma, lasciandosi dietro una scia di polemiche per il suo stile di governo autoritario. Eppure, tra appena sei mesi, si terranno le prossime elezioni legislative e, per la prima volta da quindici anni, Orbán sembra sfavorito – uno scenario che fino a qualche anno fa sembrava impossibile e che sta generando un fermento politico inedito nel paese laboratorio della democrazia illiberale. Alessandro Pilo – giornalista freelance di base a Budapest – ha parlato con l’attivista, podcaster e analista politica Nóra Schultz della speranza di costruire un’Ungheria senza più Orbán e degli scenari che potrebbero rendere possibile questa ambizione.

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Partiamo dallo stato della sinistra in Ungheria e nei paesi di Visegrád. Perché si fatica a costruire un’alternativa credibile?

Trovo accurata l’analisi di alcuni studiosi secondo cui i partiti post-comunisti dell’Europa orientale, abbracciando politiche neoliberiste e di austerità, persero il sostegno della classe lavoratrice. Nella regione il malcontento è stato intercettato dall’estrema destra, che pur mantenendo una retorica nativista ha adottato varie politiche economiche di sinistra. Nel caso ungherese, Fidesz nel 2010 ottenne una maggioranza assoluta dopo otto anni di governi liberali o di centrosinistra, percepiti dagli elettori come più attenti agli interessi delle élite finanziarie internazionali che a garantire la sicurezza sociale. Orbán ha dimostrato grande abilità nel sintonizzarsi con il sentire comune e non si è mai tirato indietro al momento di implementare misure più progressiste quando queste erano popolari – ad esempio, decidendo di imporre una pesante tassazione sui profitti delle multinazionali. Il suo attuale sfidante, Péter Magyar, ha imparato la lezione: malgrado politicamente sia un conservatore cattolico di centrodestra, sta portando avanti una campagna che ha molti elementi di sinistra. Tra le sue proposte, infatti, ci sono l’aumento delle tasse per gli oligarchi ungheresi e l’introduzione di un sistema fiscale più progressivo. Va detto che in questi anni non sono mancati politici con agende progressiste (o addirittura di sinistra populista) che avrebbero potuto ottenere risultati migliori, ma l’opposizione liberale ha preferito puntare su leader centristi – quasi delle versioni moderate di Fidesz, con la speranza di attrarne gli elettori, seguendo una strategia che si è rivelata fallimentare non solo in Ungheria. Anche per questo motivo non farei distinzioni così marcate tra i paesi del blocco Visegrád e quelli occidentali; molti problemi della sinistra sono gli stessi e inoltre esistono a livello regionale esempi di successo come il fronte progressista Lewica in Polonia.

Nel mio piccolo sono stata tra le fondatrici di Szikra, un movimento politico new left che ha avuto alcuni risultati notevoli, dall’elezione di un deputato in un collegio storicamente dominato da Fidesz, alla vittoria di un referendum che bandisce Airbnb dal quartiere più turistico di Budapest. Purtroppo nel movimento sono emersi gli stessi meccanismi autodistruttivi che affliggono molte organizzazioni progressiste, motivo per cui circa un anno fa molti dei fondatori, me compresa, hanno deciso di distaccarsene. Oggi si parla molto di isolamento sociale, depressione e mancanza di senso di comunità. Capisco che alcune persone cerchino un senso di appartenenza e identità ovunque possano, ma un’organizzazione politica non può avere come unico obiettivo quello di offrire un rifugio identitario. Ottenere il riconoscimento degli elettori e rappresentarli politicamente richiede strategie molto diverse da quelle che puntano semplicemente a ottenere l’approvazione di chi già condivide la tua visione ideologica. Molti all’interno dell’organizzazione sembravano più interessati a questo secondo aspetto, una strada che a mio avviso non porta a una vera crescita politica.

 

Péter Magyar, fino a due anni fa membro di Fidesz, sembra aver trovato la formula giusta per sconfiggere Orbán. Qual è il segreto del suo successo?

Magyar promette non solo di rompere con l’orbanismo, ma anche con i vecchi partiti di opposizione. Da due anni percorre l’Ungheria in modo capillare, visitando molte comunità marginalizzate o aree del paese che non si sono mai riprese dalla deindustrializzazione post-1989 e in questo modo sta conoscendo meglio le difficoltà quotidiane degli ungheresi che vivono fuori dalla capitale, orientando il suo discorso su temi popolari come un servizio pubblico universale e di qualità. Quando proposte simili venivano avanzate dalla sinistra, le élite liberali le accoglievano con sufficienza, chiedendo: “diteci dove troverete i soldi per farlo.” Ora che arrivano da una figura non sospettabile di simpatie progressiste, vengono invece accettate con maggiore favore. Non è un dettaglio secondario che, rispetto ai politici della vecchia opposizione, Magyar si dimostri molto più a suo agio nel manifestare la sua identità patriottica, in questo senso sta rivendicando simboli nazionali e culturali che Fidesz aveva monopolizzato e trasformato in emblemi dell’estrema destra. Inoltre, Magyar è riuscito a prendere il controllo della narrazione politica, laddove Fidesz era sempre riuscita a mettere gli avversari sulla difensiva, costringendoli a smentire una narrativa costruita su di loro, anziché proporne una propria. Dal canto suo, il partito di governo si trova in piena crisi morale: la sua reputazione è stata gravemente compromessa dall’amnistia concessa a una persona vicina all’organizzazione, condannata per aver coperto dei casi di pedofilia in una casa-famiglia, portando alle dimissioni del presidente della repubblica e del ministro della giustizia. A questo si aggiunge il crescente malcontento per il lusso e l’arricchimento dell’élite legata al governo, che diventa sempre più evidente.

Dopo quindici anni di dominio politico e culturale di Fidesz, si percepisce finalmente una breccia nel sistema, come se in Ungheria fosse tornata la Storia – non a caso nella narrazione politica di Péter Magyar questo momento storico viene fortemente paragonato a un nuovo 1989. Allo stesso tempo, si è diffusa tra molti elettori dell’opposizione una narrazione opposta, più disfattista, secondo cui difficilmente Orbán accetterà una sconfitta elettorale senza resistenze o manipolazioni.

Il cambio di regime del 1989 fu un progetto delle élite riformiste all’interno del Partito Comunista, mentre questa volta, se il cambiamento avrà effettivamente luogo, sarà in buona parte determinato dalla partecipazione politica dei cittadini – va segnalato che movimenti come Tisza di Péter Magyar hanno una forte componente dal basso. Una somiglianza con il passato potrebbe essere la diffusa percezione che l’attuale regime sia entrato in una fase di decadenza e che il cambiamento sia di nuovo possibile. A causa dei vari scandali e del deciso peggioramento dell’economia, Orbán è meno popolare rispetto agli anni scorsi e in generale i sondaggi non sono confortanti. La sconfitta di Fidesz sarebbe positiva a livello nazionale, ma darebbe speranza anche ai movimenti anti-autoritari europei: in questo senso, il modello di estrema destra al potere di Orbán potrebbe diventare il primo a essersi affermato nel continente ma anche il primo a essere sconfitto, mettendo in discussione l’idea che ci troviamo davanti a un cambio di paradigma che stravolgerà il volto dell’Europa. Nonostante ciò, la macchina propagandistica di Orbán continua a esercitare una forte influenza sulle emozioni degli ungheresi, anche su quelli che non lo sostengono. Su queste elezioni aleggia il timore di varie misure che potrebbero falsare il voto, addirittura si teme l’esclusione di Magyar dalle elezioni con l’accusa di interferenze esterne facendo leva sul precedente delle presidenziali in Romania dell’anno scorso. La propaganda governativa ha tutto l’interesse ad alimentare queste paure allo scopo di incentivare un senso di disfattismo e cinismo tra gli elettori dell’opposizione. Sono timori comprensibili, ma più si parla di quanto sia inimmaginabile che Orbán ceda il potere, meno si riflette sulla grandissima opportunità che finalmente abbiamo per sconfiggerlo.

 

Si dice spesso che l’Unione Europea abbia agito troppo poco e troppo tardi per contrastare la deriva illiberale di Fidesz. Tuttavia negli ultimi anni la pressione sull’Ungheria da parte di Bruxelles è notevolmente aumentata. Si può dire che le istituzioni europee, silenziosamente, abbiano fatto più dell’opposizione ungherese per rallentare la deriva autoritaria del paese?

Il congelamento di sei miliardi di euro di fondi UE destinati all’Ungheria per le violazioni sullo stato di diritto e la multa di duecento milioni per violazioni delle leggi sull’asilo – cui si aggiunge un ulteriore milione di euro per ogni giorno di mancato rispetto della sentenza – sono state azioni estremamente importanti, non foss’altro perché hanno indirettamente limitato il flusso di denaro utilizzato da Fidesz per alimentare il proprio regime economico-politico. Adesso l’economia ungherese è in difficoltà e il malcontento tra la popolazione aumenta, elementi che potrebbero avere un impatto sull’esito delle prossime elezioni. Tuttavia va ricordato che Orbán non ha esitato in questi anni a varcare varie linee rosse incurante delle conseguenze – e che potrebbe farlo con maggiore sicurezza ora che Trump è tornato al potere. Per questo motivo sono scettica quando si afferma che la proposta di legge volta a limitare l’attività delle ONG e della stampa libera sia stata ritirata a causa delle pressioni europee. Non mi sorprenderebbe affatto rivederla in Parlamento questo autunno, come strategia per distogliere l’attenzione dai problemi economici, un ambito in cui Fidesz gode di scarsa credibilità.

Detto ciò, trovo problematica la visione, molto comune negli ambienti progressisti ungheresi, dell’Unione Europea come unico baluardo contro l’autocrazia e portatrice soltanto di valori positivi. Le promesse di migliori condizioni di vita con l’ingresso nell’UE non sempre sono state mantenute e bisogna ricordare che dopo la crisi del 2008 le istituzioni finanziarie internazionali e l’UE imposero all’Ungheria pesanti misure di austerità in cambio di un pacchetto di aiuti economici. L’opposizione ha ignorato la frustrazione verso le istituzioni europee di certe classi sociali e fu proprio questo atteggiamento a permettere che Fidesz diventasse il partito di riferimento per chiunque avesse anche solo un minimo di euroscetticismo. Ancora una volta, bisogna riconoscere a Péter Magyar di essere riuscito a costruire una posizione inedita nello scenario politico: sta attirando gli elettori dalla sua parte con la promessa di una visione in gran parte filo-occidentale senza però dare l’impressione di accettare ciecamente qualsiasi richiesta proveniente dall’UE.

 

Oltre all’opposizione nei confronti delle politiche europee, quali sono stati gli elementi di novità più interessanti nel modello politico di Orbán?

L’Ungheria in questi anni ha lavorato attivamente alla costruzione di una rete transnazionale di estrema destra attraverso think-tank, forum internazionali, fondazioni, prestiti bancari a partiti radicali. È così che Orbán e alcuni politici a lui vicini sono potuti diventare dei veri e propri leader intellettuali nello spazio anti-liberale o anti-europeista. Tra i vari progetti, è particolarmente interessante il caso del Mathias Corvinus Collegium (MCC), un’istituzione culturale pubblica ungherese che ha aperto una sede anche a Bruxelles. Questo centro non si limita ad attrarre pensatori di destra o estrema destra, ma coinvolge anche figure della sinistra che non trovano spazio nel mainstream liberale. Il MCC offre borse di studio, invita ai suoi festival e organizza corsi e conferenze con chiunque abbia su un certo tema posizioni culturalmente o ideologicamente affini a quelle di Fidesz – e poco importa se divergono su tutto il resto. Potrebbe esserci qualcosa da imparare in questo modello: a sinistra tendiamo a tracciare molto più rigidamente i confini del dibattito “accettabile”, accogliendo e dando spazio solo a chi la pensa interamente come noi.

Nonostante sia considerato il volto della destra radicale internazionale, pensi che l’eredità politica di Orbán sia sopravvalutata?

Sicuramente sul fronte domestico il bilancio è tutt’altro che positivo. Il paese sta affrontando una dura crisi del costo della vita ed è agli ultimi posti nell’UE per quanto riguarda tutti gli indicatori economici, mentre servizi pubblici come l’istruzione, la sanità e le ferrovie sono al collasso. Anche i risultati delle sue politiche più pubblicizzate sono discutibili: nonostante la sua posizione anti-immigrazione, l’Ungheria è diventata molto più multiculturale di quanto non fosse quando ha preso il potere nel 2010 e le sue tanto decantate politiche per la natalità hanno avuto un’efficacia limitata. Direi che dietro Orbán c’è più che altro molta pubblicizzazione, favorita dal fatto che il primo ministro tiene molto a far parlare di sé attraverso posizioni controverse e a mostrarsi come un politico decisamente più influente a livello globale di quanto non lo sia in realtà. Finora, la sua vicinanza a Trump non ha portato nessun significativo vantaggio per il paese – l’Ungheria subirà i dazi esattamente come tutti gli altri paesi e inoltre il presidente americano ha recentemente richiesto che l’Ungheria interrompesse l’acquisto del gas russo, una cosa che finora Orbán si era sempre rifiutato di fare. Oltre a questo, è innegabile che Orbán abbia contribuito alla normalizzazione dell’estrema destra, tanto che molte delle sue battaglie ideologiche e culturali sono diventate parte del discorso politico mainstream. Anche per questo la sua fragile posizione politica sul fronte interno è una notevole fonte di frustrazione: nel momento in cui il continente si sposta sempre più a destra, lui rischia di perdere le elezioni ed essere tagliato fuori da un momento storico e politico che ha tanto atteso e che ha contribuito attivamente a costruire. 

 

Per quello che riguarda l’opposizione di base a Fidesz, potresti spiegarmi come è stata vissuta la vicenda di Ilaria Salis dalla sinistra antifascista ungherese?

Al tempo facevo parte della dirigenza di Szikra, ricordo che una nostra attivista venne subito arrestata e rimase detenuta per due settimane, con l’accusa di essere coinvolta negli attacchi. Venne poi rilasciata senza accuse, ma questo non impedì al governo di sfruttare il caso per regolare i conti con la sinistra ungherese e in particolare con Szikra; all’improvviso ci ritrovammo al centro di una disgustosa campagna mediatica piena di falsità. Ciò ha avuto ripercussioni profonde sulla vita di vari attivisti e ha gravemente danneggiato il lavoro di militanza di opposizione dal basso che i movimenti progressisti stavano provando a costruire. Non è un caso che in questo scenario molti simpatizzanti, spaventati, si allontanarono dalla causa. Ovviamente ignoro il livello di coinvolgimento di Ilaria Salis negli attacchi antifa di due anni fa e non voglio entrare nel merito del suo caso individuale, ma in ogni caso li considero ingiustificabili. Era abbastanza prevedibile che Fidesz li avrebbe strumentalizzati per screditare il lavoro degli attivisti locali, e alla fine dei giochi, Orbán è uscito rafforzato da tutta questa vicenda. Oltre a questo, non bisogna dimenticare che, a posteriori, la nostra stessa incolumità era stata messa seriamente a rischio, aprendo le porte alla possibilità che i gruppi neonazisti compissero rappresaglie nei nostri confronti. Non mi trovo d’accordo con il modo in cui la sinistra europea, soprattutto online, ha romanticizzato e celebrato la vicenda. In questa narrazione il punto di vista locale è rimasto invisibile, come se non esistesse o non importasse affatto.


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