Le nostre società si compongono di una serie di istituzioni alle quali siamo tanto abituati da considerarle quasi naturali, mentre facciamo sempre più fatica ad applicare lo stesso pensiero su quello che si muove spontaneamente tra di noi. Perché? E come si rapportano tra di loro questi ambiti? Ne abbiamo parlato con Ilaria Salis, militante antifascista ed europarlamentare.
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Nell’ultimo periodo la questione carceraria – di solito dimenticata – è stata al centro delle cronache per via della detenzione della giornalista Cecilia Sala in Iran, un regime considerato un “nemico” dell’Occidente. È innegabile che dal punto di vista mediatico e di dibattito politico questa vicenda sia stata trattata diversamente da quella che ti ha visto protagonista, o da quella dell’antifascista Gino Abazaj. Cosa pensi di questa differenza?
Per quanto sia stato assolutamente legittimo e doveroso l’impegno per riportare a casa Cecilia il più presto possibile, ritengo comunque profondamente ingiusto che queste situazioni siano state trattate in modo talmente differente. D’altra parte non sono neanche così sorpresa da questa differenza, anzi, mi avrebbe colpito di più se da un giorno all’altro si fosse vista la stessa mobilitazione anche per Gino – anche nel mio caso, la mia detenzione è diventata un tema importante nell’opinione pubblica italiana solo dopo che ero lì da quasi un anno. Questo dipende in primo luogo dalla natura spettacolarizzata della nostra società, per cui è ben più facile attirare l’attenzione del grande pubblico per una giornalista affermata e conosciuta che non per perfetti sconosciuti come me e Gino. A questo va aggiunto che noi siamo militanti antifascisti legati ai movimenti della sinistra radicale e per questa ragione non godiamo un po’ a priori del favore dei settori più benpensanti e moderati della società – gli stessi che poi andiamo anche a criticare.
Malgrado tutto questo, nel mio caso (e spero anche in quello di Gino) si è verificato per una volta qualcosa di inaspettato, riuscendo a imporre un discorso che ha costretto anche molti liberali a prendere posizione, dimostrando come in realtà anche una lotta su posizioni più autonome e forti possa avere un seguito. In effetti, le nostre vicende hanno portato il discorso pubblico liberale a confrontarsi con le contraddizioni della società in cui viviamo. Poi anche qui restiamo nell’ambito della società dello spettacolo, tanto che nel mio caso – da quello che ho potuto ricostruire dopo la mia liberazione – quello che ha fatto la differenza è stata l’immagine delle catene ai miei polsi, abbastanza forte da impedire anche ai più moderati di nascondersi dietro all’ipocrisia costringendoli a seguirci su dei discorsi più avanzati.
Nel caso Sala le dure condizioni della sua detenzione sono state imputate all’Iran, regime autoritario molto diverso da noi – e così anche nel tuo caso ci si diceva vabbè, è pur sempre l’Ungheria, vabbè, è Orban. Non pensi che si voglia sempre attribuire il problema a qualcun altro, mentre anche qui in Italia la situazione è terribile – quasi 90 suicidi di detenuti solo nel 2024?
La situazione italiana è assolutamente drammatica. Il numero dei suicidi che citi è il più alto da quando si è iniziato a registrarne il dato, quindi almeno dagli anni Novanta. Io stessa, da quando sono eurodeputata e posso visitare liberamente le carceri, ne ho visitate varie specialmente nel Nord e ho potuto rendermi conto della gravità della situazione, ben al di là dei “soli” suicidi che sono il dato più lampante. Trovo assolutamente inaccettabile che un paese che voglia definirsi civile tolleri tutto questo e non faccia nulla di concreto. Anzi, il ministro della giustizia Nordio ha recentemente rifiutato ogni possibilità di amnistia perché sarebbe “un segno di debolezza dello stato” e un incentivo alla recidiva. La verità, al contrario, è che proprio a causa dell’approccio punitivo e non riabilitativo dell’attuale sistema giudiziario e carcerario il tasso di recidiva in Italia è al 70%. Di fronte a tutto questo occorre che ci iniziamo ad assumere collettivamente delle responsabilità, senza scuse né giustificazioni.
Resta invece questa tendenza un po’ colonialista di cercare un nemico esterno e demonizzare l’altro, che sia l’Ungheria o l’Iran. Creiamo l’immagine di un mostro che non c’entra nulla con noi proprio perché non vogliamo vedere quelli che ci sono molto più vicini. E questo non significa che le carceri ungheresi e ancora di più quelle iraniane non siano ben peggiori di quelle in Italia, ma comprendere che dobbiamo aprirci ad una critica radicale anche al sistema italiano. A conti fatti, il carcere è sempre carcere, ovvero un’istituzione pensata per annientare l’umanità delle persone e questo è vero a prescindere da dove si trovi e dalla durezza del sistema. Una società giusta dovrebbe impegnarsi a guardare oltre e per questo l’ottica con cui io anche mi sto occupando del tema è proprio quello della sua abolizione.
Proprio su questo tema hai concentrato una buona parte del tuo lavoro al Parlamento europeo. Perché credi che questo passaggio sia auspicabile e come credi possa essere messo in pratica?
Come dicevo, io sono convintamente abolizionista e intendo continuare a portare questo discorso nel mio lavoro istituzionale. Il problema è che in Italia questo tema è ancora marginale rispetto ad altri paesi, probabilmente anche perché a differenza degli Stati Uniti non abbiamo avuto una lotta radicale come quella per l’abolizione della schiavitù. Anche lì, quando nell’Ottocento qualcuno toccava l’argomento era visto come fuori dal mondo, mentre nessuno in questo momento si esporrebbe per sostenere che gli esseri umani possano essere schiavizzati, essendo un trattamento universalmente considerato inumano. La stessa cosa potrebbe accadere con l’abolizione delle carceri, un tema che va posto come propositivo perché implica anche il ripensamento della società stessa, passando per un processo graduale.
Nei Paesi Bassi, per esempio, sono stati chiusi la metà dei penitenziari passando per la depenalizzazione di svariati reati minori, trasformati in semplici infrazioni amministrative. A questo poi si possono aggiungere incentivi per l’utilizzo di misure alternative e tutta una serie di altri provvedimenti che in definitiva rientrano in un discorso di giustizia trasformativa. Con questo termine mi riferisco all’azione sulle condizioni materiali che sono la causa di questo tipo di crimini; anziché buttare la gente in cella, è essenziale intervenire sulle disuguaglianze sociali perché la maggior parte delle persone che sono in carcere – in Italia ma anche in Ungheria – ci sono finite per piccoli reati contro il patrimonio, fondamentale perché sono poveri. Anche per questo sono convinta che tale battaglia possa portare alla convergenza di movimenti anche molto diversi tra loro, che siano libertari, anarchici e comunisti, ma è un tema che potrebbe attirare anche certi settori liberali.
La tua detenzione in Ungheria è avvenuta in relazione a un episodio di militanza e azione diretta antifascista. La tua liberazione, invece, è stata figlia di una campagna di pressione e di un risultato elettorale. Quanto pensi che funzionino queste due prassi nell’UE di oggi? Il tuo è stato un raro caso in cui si è riusciti a collegare queste due dimensioni, ma come mai nella maggior parte dei casi non ci si riesce?
Bisogna specificare che il mio caso è stato qualcosa di assolutamente non programmato. Io stessa sono stata per molti anni convintamente anti-elettoralista, mentre adesso mi ritrovo ad essere una rappresentante eletta nei corpi della politica istituzionale. Eppure questo passaggio non si può scindere da quella che è stata la mia storia, avendo dovuto prendere questa scelta in prigione senza potermi confrontare con chi avrei voluto. Certo, credo che sia stata la scelta giusta ma sto ancora cercando di trovare un equilibrio in questa nuova dimensione. D’altra parte, ritengo che coniugare le lotte dal basso e la politica istituzionale sia difficile ma non impossibile e mi auguro che la mia non resti una vicenda isolata.
Un modello in questo senso può venire dalla Francia, un paese in cui negli ultimi dieci anni i movimenti sono stati molto più capaci che altrove nel determinare le scelte politiche anche portando avanti richieste radicali. Questo è stato possibile grazie ad un partito, La France Insoumise, che si è impegnato a tradurre tali istanze di piazza portandole all’interno di una dimensione istituzionale. In Italia siamo sfortunatamente molto lontani da questo scenario che per me sarebbe assolutamente auspicabile, ma i politici di sinistra qui devono ancora imparare ad ascoltare di più quello che si muove nella società e basarsi anche su quello per costruire proposte e rivendicazioni. Io comunque rimango convinta dell’autonomia del sociale come qualcosa da rispettare e valorizzare, essendo l’unico spazio che può produrre un cambiamento vero, ma questo non significa che la politica non possa fare da megafono e assecondare quello che si muove autonomamente nella società.
Il governo italiano sta attualmente discutendo il DDL 1660, un pacchetto di provvedimenti particolarmente draconiani in materia di sicurezza che sono stati da più parti definiti una minaccia alla democrazia italiana. Si tratta di un passo ulteriore del processo di “visegradizzazione” del nostro paese – sempre se si può parlare di “visegradizzazione” (la politica ungherese Zsuzsanna Szelenyi, su queste pagine, ad esempio ha rifiutato questa definizione)? L’Ungheria è un modello per il futuro dell’Europa?
Se l’Ungheria fosse effettivamente il modello verso cui va l’Europa sarebbe un fatto estremamente grave e pericoloso. Più che altro credo ci sia una più generale tendenza all’autoritarismo che coinvolge in forme diverse i paesi europei e gli Stati Uniti come anche molti altri paesi fuori dall’Occidente e che è intimamente legata all’attuale fase di sviluppo del capitalismo, configurandosi come una forma di neoliberismo autoritario come strumento per uscire dalla crisi. La chiave di lettura per contrastare questa tendenza globale sta nell’individuazione di un terreno di lotta comune e indipendente dal paese in cui ci si trova, ovvero lo sviluppo di un’opposizione transnazionale al capitalismo motore di queste derive antidemocratiche. Infatti è proprio dove sono più profonde le disuguaglianze sociali che si crea terreno fertile perché i regimi più oppressivi affondino le proprie radici. Resta un grosso problema culturale legato alla narrazione dell’attualità e da questo punto di vista c’è da lavorare veramente tanto, considerando quanto spazio trovino certi discorsi qualunquisti che bisogna imparare ad arginare imponendo una visione contrastante su tutta una serie di ambiti. Dopotutto, occorre ricordare alle persone che le destre sono la più grande farsa della storia: illudono gli elettori di fare gli interessi delle classi lavoratrici, laddove si schierano sempre dalla parte dei padroni.
In tutti i paesi europei in cui c’è stata un’ascesa dell’estrema destra, negli ultimi anni, si sono viste mobilitazioni dal basso per contrastarla. Fa eccezione l’Italia, dove l’estrema destra è al governo e la mobilitazione è molto più ridotta se non quasi inesistente. Come si spiega questa differenza, e qual è lo stato di salute dei movimenti di base in Italia?
In Italia non stiamo vivendo una grande stagione di movimenti sociali, ma non è così nemmeno nel resto d’Europa – fatta eccezione per la Francia, ormai il principale esempio virtuoso in questo senso. Detto questo, io rimango fiduciosa non foss’altro perché negli ultimi anni in cui lavoravo come insegnante di liceo mi sembrava di vedere nei miei studenti una crescente consapevolezza, quantomeno su alcuni temi, ma forse il mio è solo normale ottimismo da insegnante rispetto alle nuove generazioni. Al contempo, bisogna riconoscere a Meloni una certa abilità nel ripulire la propria immagine, vendendosi almeno a livello di facciata come una figura più posata e rassicurante, e questo a livello di senso comune ha reso più difficili grandi mobilitazioni contro il governo. Resta da smascherare questa retorica, mostrando invece il vero contenuto reazionario delle sue politiche anti-ecologiche, anti-popolari e profondamente ingiuste nel loro perpetuare le disuguaglianze economiche, di genere e razziali. Non è semplice farlo ma è necessario per costruire una vera opposizione che abbia il coraggio di fare proposte genuinamente di sinistra e rifiuti di spostarsi verso centro – come invece accade il più delle volte quando la destra è al governo. Il problema è che in Italia la consapevolezza sulla deriva preoccupante che si sta prendendo è ancora troppa poca.
in copertina: Composizione sul tema dei “pescatori.” Béla Uitz, 1920. Foto: CC BY-NC-SA Magyar Nemzeti Galéria