Il conflitto a Gaza ha diviso l’opinione pubblica mondiale in due squadre, noi e loro. Eppure, tale spaccatura non si basa su ideologie o interessi di classe, ma è totalmente arbitraria: è il ritorno della distinzione amico/nemico di Carl Schmitt, ma in una versione ridicola e infantile. Ne parla l’analista politico brasiliano Alex Hochuli, co-autore del saggio La fine della fine della storia (Tlon, 2022).
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Quando Hamas ha attaccato Israele il 7 Ottobre e Israele si è poi vendicato, abbiamo finalmente avuto ciò che aspettavamo: una scusa per scagliarci l’uno contro l’altro. Sì, noi, a migliaia di chilometri di distanza. Le linee erano già state tracciate, era il momento di attaccare. Si trattava di Noi e Loro, i buoni e gli oppressi contro i malvagi, la nostra contro l’altra squadra.
Non sono parole mie, ma del presidente degli Stati Uniti. Il 17 ottobre c’è stata un’esplosione all’ospedale al-Ahli di Gaza e, nel rincorrersi di versioni e smentite, il giorno seguente Joe Biden ha informato Benjamin Netanyahu che, “sulla base di ciò che ho visto, sembra che sia stato fatto dall’altra squadra, non da voi”. L’altra squadra. Perché, ovviamente, ciò che sta avvenendo è sport, non politica. Il conflitto israelo-palestinese è solo un derby particolarmente cruento, Inter-Milan ma con i corpi sparsi per San Siro.
Le parole di Biden contenevano una verità profonda: la politica occidentale si sta trasformando in uno stato di guerra permanente tra campi ostili che si rafforzano a vicenda. Da una parte ci sono gli amici, dall’altra i nemici. Rossi contro blu. Perché proprio rossi? Perché proprio blu? Smettiamola di fare domande stupide.
La polarizzazione che è emersa nelle società occidentali sulla questione di Gaza non è figlia del conflitto in Medio Oriente ma è qualcosa emerso nell’ultimo decennio. Ed è la conseguenza del ritorno della politica al termine di un lungo periodo di depoliticizzazione, in tempi più duri, con poca o nessuna crescita da condividere e nessuna organizzazione politica di massa a fornire coerenza ideologica.
Ecco un esempio di questa incoerenza. “Salviamo le balene!” è probabilmente lo slogan più hippy che ci sia, associato alla sinistra ambientalista da sempre odiata dalla destra interessata solo al denaro, al potere, alla razza. Ebbene, per quanto sia sconcertante, abbiamo visto il leader mondiale della nuova destra, Donald Trump, riprendere efficacemente lo slogan. Le turbine eoliche offshore uccidono le balene (pare non sia vero, ma ancora una volta, non fissiamoci sui fatti). E le turbine eoliche sono una cosa a cui la sinistra ecologista è favorevole. E la sinistra deve essere fermata, per evitare che distrugga ciò che resta della civiltà occidentale. Ergo: salvare le balene, ownare la sinistra.
Non importa come una determinata posizione si collega alla propria tradizione politica, sia essa conservatrice, liberale o socialista: ciò che conta è fermare gli altri. O, meglio ancora, trollarli. Così, paradossalmente, la sinistra woke promuove categorie razziali in nome dell’antirazzismo, essenzializzando i conflitti materiali e riducendo questioni politiche complesse alla categoria di “whiteness”. E se alcuni bianchi si arrabbiano per questo, ciò conferma che la radice di tutti i mali sta nell’essere bianchi. La destra, allo stesso modo, vive del provocare le sensibilità altrui. Ma paradossalmente ora si è messa anche a strillare chiedendo la censura e la repressione legale dell’attivismo pro-Palestina con l’accusa di antisemitismo. Cancel culture per te, ma non per me. Ed entrambe le parti si appellano a un intervento delle autorità. Nell’asilo infantile che è la politica del XXI secolo, tutti ce lo diciamo alla maestra. È Carl Schmitt, ma in versione Disney.
Il giurista tedesco nazista Carl Schmitt è noto per aver definito la politica come fondamentalmente riducibile alla distinzione tra amici e nemici. Nella politica, Schmitt vedeva solo il prendere posizione, il tracciare linee tra “noi” e l’estraneo, laddove l’incapacità di farlo significa una perdita di identità politica e, alla fine, l’erosione della sovranità e il collasso dell’ordine politico. Oggi, le distinzioni amico/nemico popolano la scena politica – e quanto più ci si allontana dal potere, tanto più ciò risulta evidente.
Dopo la sconfitta storica e globale del socialismo e del movimento operaio, il campo politico si è ristretto riducendosi alla lotta tra fazioni del liberalismo. Negli anni Novanta e Duemila l’enfasi è stata posta sul consenso: sappiamo qual è l’obiettivo finale, restano aperte solo questioni tecniche. Questo ordine è crollato sotto la forza delle conseguenze della crisi finanziaria globale. Ed è tornata anche la contestazione politica ma, vista la fine delle vecchie ideologie, essa ha preso la forma dell’anti-politica e del “populismo”. Il populismo del XXI secolo è ciò che accade quando si cerca di fare politica senza le masse.
Ma come ha fatto il populismo anti-élite del 2010 a diventare “schmittiano”? Come si è arrivati a dividere la società civile in campi in guerra? Il populismo si basa sul tenere insieme interessi diversi che devono essere saldati in un “popolo” – e il modo migliore per farlo è l’identificazione di un nemico. Ma oggi non esiste alcun popolo. I tentativi di costruire coalizioni trasversali, maggioritarie e anti-élite sono tutti naufragati e quando la frustrazione è cresciuta le élite stabilite hanno incanalato il malcontento nelle guerre culturali: le reti di destra pompano la minaccia dei migranti, i commentatori progressisti temono le masse razziste.
Eppure, la sterile polarizzazione delle nuove guerre culturali si discosta dalle teorie di Carl Schmitt, a cui interessava a chiarire gli aspetti esistenziali della politica in modo da dare priorità al processo decisionale e all’azione sovrana. Al contrario, le polarizzazioni contemporanee sono infantili, disneyane. Fanno continuamente appello a un’autorità terza che giudichi e decida, idealmente intervenendo a favore della propria parte. Nessuna delle due parti vuole prendere il potere: vogliono prima di tutto protezione e riconoscimento da chi ce l’ha. E poi, mentre Schmitt era amorale, queste retoriche sono moraliste, una conseguenza del loro essere slegate dalla questione del potere. E dunque gli slogan e le domande politiche tendono a essere insieme imperativi e slegati dalla realtà: Just Stop Oil! Build The Wall! Abolish the police! Lock her up!
Pensiamo ancora al modo in cui in Occidente viene percepito il conflitto israelo-palestinese. A sinistra c’è chi ha accolto con gioia le atrocità del 7 Ottobre, vedendo negli attacchi un colpo contro l’impero, la colonizzazione, il razzismo e molto altro ancora, insistendo sul fatto che la resistenza palestinese deve essere portata avanti “con ogni mezzo necessario“. Tutti i principi morali devono essere abbandonati per perseguire la “liberazione”. Non c’è alcun ragionamento di carattere realistico, sui rapporti di forza nella regione o sullo stesso avvenire della Palestina, di quelli che ci si aspetta che faccia la sinistra. Ci basta sapere che i palestinesi sono amici e tutti gli altri nemici.
Ma soprattutto la sinistra dovrebbe avere chiaro che qualsiasi risoluzione del conflitto coinvolgerà necessariamente israeliani e palestinesi, ebrei e arabi, che dovranno vivere insieme. Il che richiede la presenza di forze progressiste e democratiche da entrambe le parti. Eppure è ormai sempre più raro trovare qualcuno che esprima questa posizione, diventata una forma di “cerchiobottismo”. La famosa massima di Trotsky, “tu puoi non essere interessato alla guerra, ma la guerra è interessata a te” è oggi ribaltata: non solo devi essere interessato alla guerra, devi desiderarla.
Per quanto riguarda la destra, il suo sostegno alla barbarie che Israele sta commettendo non dovrebbe sorprendere. Tracciare la linea tra amico e nemico, interno ed esterno, Noi e Loro è nella sua tradizione. È ironico però che oggi, complice l’inaridimento della politica di sinistra di massa, sia emerso uno schmittianismo di sinistra privo di ogni ideale e di ogni ambizione a edificare una forma più elevata di organizzazione sociale. E dallo schmittianismo disneyano non è esente nemmeno il centro liberale. Si pensi all’intolleranza liberale dell’intolleranza, alla persecuzione verso chi non adotta le sue ortodossie. Il maggior promotore della lotta contro i “nemici interni” non è più la destra, ma il liberalismo. Lo testimoniano le campagne contro l’estremismo, la collaborazione di governi e imprese private nella costruzione di un enorme apparato di censura con il pretesto di “combattere la disinformazione”. E il modo in cui una parte del pubblico, soprattutto quella professionale, ne è diventata l’appassionata cheerleader.
Ci troviamo di fronte a un nuovo tipo di guerra culturale, che non è più solo culturale. Si basa sulla polarizzazione all’interno della società civile, che nella maggior parte dei casi è trasversale alle linee di classe. Entrambe le parti sono isteriche, perché entrambe credono di essere vittime e sotto minaccia esistenziale: i liberali e la sinistra credono di essere sotto il fuoco di razzisti e sessisti, delle multinazionali e dello stato, mentre la destra si vede minacciata dall’élite globalista e dalla lobby gender, alleata delle… multinazionali e dello stato. E i venti vorticosi della nuova guerra culturale possono travolgere qualsiasi cosa, dalle questioni micropolitiche di genere ai macroproblemi di geopolitica.
Ciò che distingue questa guerra culturale dalla politica reale è il fatto che in essa le posizioni che si adottano sono arbitrarie, non radicate né in una tradizione politica né in interessi di classe. C’è invece un attaccamento ai simboli, rappresentativi di “quel tipo di persona” – quel liberale o conservatore che odi – in un cortocircuito tra l’interpersonale e il politico. Ci sentiamo impotenti, quindi riteniamo il nostro vicino responsabile dei mali del mondo. Sostiene Hamas. È un sionista responsabile del massacro a Gaza. Non dobbiamo farlo parlare, non dobbiamo farlo agire.
Qui il nostro schmittianismo disneyano si allontana ancora una volta da Carl Schmitt. Per Schmitt infatti il proprio nemico politico deve essere un nemico pubblico, un hostis, e non un nemico privato, un inimicus. L’hostis va combattuto perché rappresenta una minaccia esistenziale per la propria comunità politica, mentre l’inimicus è un nemico personale, qualcuno che odi. Ora, con il crollo della distinzione tra sfera pubblica e privata, è difficile per i nostri schmittiani in stile Disney distinguere tra inimicus e hostis. Anche il tuo vicino, che odi perché è uno di loro, rappresenta una minaccia esistenziale – anche se solo nella tua immaginazione.
Significa che andiamo verso una guerra civile? No, perché rimaniamo reciprocamente estraniati – e infatti non stiamo fondando milizie, ma commentando incazzati sui social. Tuttavia, il rifiuto di porre la questione del potere e il costante fare appello a un adulto perché ci giudichi, a un’autorità perché intervenga in nostro favore, nascondono un problema diverso. Rafforzano lo stato contro la società civile, invece che la società civile contro lo stato. E aprono un vuoto nel quale potrebbe inserirsi, fingendo di mediare tra le parti, una figura autoritaria.