Blog

  • Home

In ogni momento della nostra vita ci viene chiesto di esporci politicamente su di un’immensa varietà di temi e ogni volta che lo facciamo finiamo anche per definire chi siamo. Eppure, sebbene il dibattito politico non sembra avere mai fine, non porta mai da nessuna parte: è il mondo dell’iperpolitica descritto dallo storico belga Anton Jäger.

Quello che segue è un estratto dal suo libro, Iperpolitica, seconda uscita di Iconografie del XXI Secolo: la nuova collana di NERO dedicata alla geopolitica e all’attualità internazionale, in collaborazione con Iconografie. Per averlo clicca qui, o vai in qualsiasi libreria.

***

Le fotografie hanno una tonalità brillante, quasi fluorescente. Il tema che le collega è “amore”. In un ritratto intitolato Love (hands in the hair), una donna con i capelli rossastri e gli occhi chiusi è stretta da due mani protese dall’esterno dell’inquadratura. In Love (hands praying), una donna con gli occhi chiusi incrocia le mani in mezzo a una folla di persone in festa. Come in un rituale laico, sembra meditare nell’anonimato di un nightclub. Le persone nelle fotografie ballano al ritmo di una musica ispirata ai rumori emessi dai macchinari industriali di Detroit e di Manchester, le due città in cui è nata la techno.

Nel 1989, l’anno in cui queste foto sono state scattate, però, quei macchinari non erano più operativi. La maggior parte di essi era stata ridimensionata o delocalizzata in Cina, e le due città gemelle della techno si erano deindustrializzate. I giovani fotografati da Wolfgang Tillmans nella sua serie sulla vita notturna ballano per scordarsi dell’industria, della politica e della storia stessa. Vale la pena notare l’anno e il luogo in cui le foto di Tillmans sono state scattate. Documentano una Londra thatcheriana e una Berlino in cui il muro sta crollando. A est, il socialismo reale è vicino al collasso. È il trionfo di un capitalismo veramente globale. La deindustrializzazione dell’Occidente sta accelerando. Nello stesso anno in cui il filosofo statunitense Francis Fukuyama pubblicava il suo famoso saggio sulla “fine della Storia” sul National Interest, la macchina fotografica di Tillmans diventava testimone di un esercizio di amnesia collettiva: un tentativo di scacciare gli spettri ideologici dell’ultimo secolo ed entrare silenziosamente in un’utopia privata. Si apriva l’era della “post-politica”, in cui le strade del pubblico e del privato si erano separate e la stessa pratica politica entrava in un profondo declino.

La testimonianza del fotografo cattura uno stato d’animo visibile in tutto il mondo sviluppato. In Iraq, le guerre di massa del XX secolo stavano lasciando progressivamente il posto a operazioni specialistiche architettate da avvocati e tecnocrati, che non richiedevano più il coinvolgimento sul campo. Il razzismo sembrava un problema da risolvere in tribunale, come evidenziato dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione istituita nel Sudafrica post-apartheid. Ora del 1994, l’ex leader del Partito comunista italiano Achille Occhetto era volato a Wall Street a dichiarare che le sue banche erano “il tempio della democrazia” e le sedi cittadine della NATO “il centro della civiltà”. In una prefazione del 1992 al suo vecchio libro La società dello spettacolo (1966) il filosofo francese Guy Debord diagnosticò un mondo “ufficialmente unificato” in “un solo blocco” nell’”organizzazione consensuale del mercato globale”. La situazione politica, faceva notare uno storico americano parlando degli anni Novanta, “sembrava così soddisfacente che il paese poteva occuparsi della pressante questione se la presunta stimolazione orale dei genitali del presidente da parte di una stagista della Casa Bianca costituisse o meno “un atto sessuale””. Ai margini di tutto ciò, Tillmans cercava di ritagliarsi uno spazio per crescere professionalmente, libero finalmente dai pesanti imperativi della politica di massa del XX secolo.

Alla fine degli anni Dieci del Duemila, tuttavia, il mondo di Tillmans sembra già diverso in modo preoccupante. Comincia a fotografare le proteste di Black Lives Matter. Va nei campi profughi. La sua pagina Instagram si riempie di bandiere europee e frammenti di discorsi di protesta. I suoi lavori oggi hanno una patina grigiastra, cromata, che contrasta in modo netto con i colori eterogenei che vediamo nelle foto del 1989. Tillmans si impegna persino nella politica tradizionale, creando una serie di manifesti per la campagna Remain del 2016, contro l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea. “Nessun uomo è un’isola. Nessun paese per conto proprio”, “Ciò che è perso è perso per sempre”, “È una questione di appartenenza. Noi siamo la famiglia europea”. Gli slogan sono scritti su immagini eteree scattate dallo stesso Tillmans: immagini del cielo visto dal finestrino di un aereo. Da lontano sembrano riproduzioni digitali di un dipinto di Caspar David Friedrich. Rispetto al 1989, il paesaggio è chiaramente cambiato: Trump è stato eletto presidente nello stesso anno in cui la Gran Bretagna è uscita dall’Unione Europea; quattro anni dopo, le proteste di Black Lives Matter hanno dato vita alle più grandi manifestazioni di piazza nella storia americana. I paesaggi aperti che Tillmans aveva visto dal finestrino di un aereo nel 1989 stanno subendo una frammentazione, e in tutto il continente vengono innalzati muri. 

Possiamo perdonare a Tillmans i suoi riferimenti romantici. Il fotografo aveva una prepotente nostalgia per l’epoca post-storica: quarant’anni di utopia artistica si stavano disgregando, e lui rispondeva con riferimenti agli stessi anni Novanta. Immagini di empatia, unità, amore. La sua era “arte dopo il liberalismo”, per dirla con le parole di un critico. In questo senso si dimostrava anche il figlio perfetto dell’epoca post-rivoluzionaria. Come aveva fatto notare il filosofo francese Jean Baudrillard nel 1994, cinque anni dopo le feste fotografate da Tillmans, “i diritti umani, la dissidenza, l’antirazzismo, SOS-questo, SOS-quello” erano “ideologie morbide, facili, post coitum historicum, ideologie da dopo-orgia per una generazione leggera che non ha conosciuto né ideologie dure né filosofie radicali”. Il contrasto con il sovraccarico politico del XX secolo era notevole. Secondo Baudrillard, la generazione di Tillmans aveva riscoperto l’altruismo, la convivialità, la carità internazionale e il cuore tenero dell’individuo. Effusioni emotive, solidarietà, emotività cosmopolita, pathos multimediale: tutti valori soft duramente condannati dall’epoca nietzscheana, marxista, freudiana…Una nuova generazione, quella dei figli viziati della crisi, mentre la precedente era quella dei figli maledetti della storia. Nei ritratti di Tillmans delle proteste di Black Lives Matter e degli scioperi scolastici per il clima, Baudrillard avrebbe riconosciuto la stessa propensione all’emotività, un desiderio di quello che è stato definito il “reincantamento del quotidiano”. Baudrillard aveva anche predetto che l’incontro di Tillmans con i “figli viziati della crisi” non sarebbe durato, proprio come la “fine della storia” di Fukuyama. “Forse la fine della storia”, aveva concluso alla fine degli anni Novanta, “è stata solo un effetto dell’astuzia della storia, che consiste nell’averci nascosto la sua fine, nell’essere finita senza che ce ne accorgessimo”. Un giorno, sosteneva, la “fine della storia” avrebbe raggiunto lei stessa una fine, e la post-storia sarebbe tornata alla storia. Allo stesso tempo, la post-politica si sarebbe trasformata di nuovo in politica.

In un certo senso, Baudrillard aveva senza dubbio ragione. Dopo la crisi finanziaria del 2008, nel mondo occidentale, una forma di politica è ritornata, ed è visibile in fenomeni che vanno da Trump a Black Lives Matter e Extinction Rebellion. Eppure questa nuova era politica non ha visto una rinascita integrale della politica di massa da cui si erano finalmente liberate le feste fotografate da Tillmans nel 1989. È politica, certo, ma una politica che, in maniera ugualmente imperfetta, sostituisce e completa la post-politica degli anni Novanta, rimettendo insieme il pubblico e il privato in termini diversi da quelli a noi familiari dell’epoca classica della democrazia. Come descrivere questa nuova era?

Più o meno a metà del suo romanzo Gli anni (2008), la scrittrice francese Annie Ernaux offre ai suoi lettori una visione retrospettiva della metà degli anni Novanta che ricorda i ritratti di Tillmans: “Si diffondeva un clima d’escatologia politica. Si annunciava l’avvento di un “nuovo ordine mondiale”. La fine della Storia era vicina. […] La parola “lotta” era stata screditata, quasi puzzasse di un marxismo ormai messo in ridicolo, il termine “difesa” designava innanzitutto quella dei consumatori.” Nata nel 1940 da genitori della classe lavoratrice, Ernaux era già diventata una delle scrittrici più famose nel suo paese prima di vincere il Premio Nobel per la letteratura nel 2022. Pubblicata per la prima volta in Francia nel 2008, la sua “autobiografia collettiva” della Francia postbellica era comparsa poco prima che Lehman Brothers fallisse e causasse un infarto al sistema finanziario internazionale. La traduzione inglese de Gli anni sarebbe uscita soltanto nel 2017, alla fine del decennio populista. Al momento della sua pubblicazione, l’opera di Ernaux fotografava un mondo chiuso e claustrale in cui i cittadini si erano ritirati nella privacy e nell’isolamento. “Nella routine monotona dell’esistenza personale”, ricorda l’autrice, “la storia non aveva importanza.” La politica era relegata nel dimenticatoio. I tecnocrati, perlopiù di stanza nelle banche centrali o in altre istituzioni – come il FMI o la Commissione Europea – avevano preso il comando. Era stato sviluppato anche un idioma adatto al nuovo mondo. Il primo ministro britannico Tony Blair aveva affermato che opporsi alla globalizzazione era come opporsi al cambiamento delle stagioni, mentre il termine Alternativlosigkeit (“mancanza di alternative”) entrava rapidamente nella lingua tedesca. Un gruppo di poeti polacchi aveva presenziato all’apertura del primo McDonald’s del paese; preti cattolici avevano consacrato l’inaugurazione della prima fabbrica di Coca-Cola. Dall’altra parte dell’Oceano, il Partito democratico sceglieva la “Macarena” come sigla per la propria convention nazionale del 1996. A Westminster, Blair salutava Diana Frances Spencer come una “principessa del popolo”. A Sarajevo, gli U2 trasmettevano in streaming una performance della loro canzone “Mrs Sarajevo” nella città sotto assedio. (“Voi tornerete ai vostri concerti rock. Vi dimenticherete persino che esistiamo. E noi moriremo tutti”, era stata la secca risposta di uno degli abitanti). 

L’atmosfera poteva certamente sembrare liberatoria. La liberazione dalle chiese ideologiche del XX secolo era stata accolta con un senso di euforia, soprattutto da coloro che desideravano la rimozione delle barriere di genere e razza che avevano tracciato i confini del “capitalismo organizzato” a partire dalla Seconda guerra mondiale, o dai dissidenti che protestavano contro le dittature comuniste nei loro paesi. La breccia aveva permesso una serie di pratiche di cui le feste fotografate da Tillmans rappresentano un esempio. Eppure la totalizzazione del privato richiedeva anche un’attenta marginalizzazione del pubblico. In contrasto con l’epica di liberazione di Tillmans, Ernaux è stata in grado di documentare la transizione alla post-politica con un’ambiguità mirata, osservando i contorni del nuovo ordine invece che guardarci attraverso. “Dato che nessuno ci rappresentava”, scrive, “era soltanto giusto che facessimo come ci pareva, così che il voto era diventato una questione privata, emotiva, governata dagli impulsi dell’ultimo minuto”. Nel complesso, era necessaria “l’abitudine e la memoria di lunga data del “dovere elettorale” per darsi pena di recarsi al seggio una domenica d’aprile, nel pieno delle vacanze di primavera”. Le droghe e le feste sembravano offrire un iniziale conforto, insieme a promesse di consumo sempre più esorbitanti. “C’era una pubblicità che diceva: soldi, sesso, droga – scegli i soldi”, racconta Ernaux, mentre la Francia “passava dal lettore DVD, alla fotocamera digitale, al lettore mp3, all’ADSL, allo schermo piatto”. La musica da rave diventava un rituale con cui piangere il lutto per l’economia industriale, mentre i club e i festival all’aperto si trasformavano in “paradisi di rapimento sonoro ed ebbrezza chimica”, come aveva notato il giornalista britannico Gavin Jacobson. Dal canto suo, il dibattito politico decantava in un flusso di eccitabile banalità. Per gli scienziati politici e i giornalisti, l’analisi elettorale aveva cominciato a scivolare verso qualcosa di simile alle ricerche sulle scatole nere dopo gli incidenti aerei, con “il popolo” diventato la personificazione di un disastro naturale. I commentatori si lamentavano del calo della partecipazione elettorale. “Tutto è permesso ma nulla è possibile”, era la cosmologia degli anni Novanta, nelle parole del filosofo francese Michel Clouscard, mentre il suo collega Cornelius Castoriadis registrava una “società alla deriva” in mezzo a “una crescente marea di insignificanza”. Lo scrittore Sam Kriss ha ricordato il periodo descritto da Ernaux da una prospettiva più giovane, quella di un millennial:

All’epoca non era normale che i giovani si definissero politicamente. Ai miei amici piaceva fare affermazioni grandiose come “sono più importante del femminismo” o “la politica è per le menti piccole”. La generazione dei millennial non era descritta in modo stereotipato come narcisista, moralista e ipersensibile: ci si aspettava anzi che fossimo tutti dei nichilisti alcolizzati, universitari festaioli o membri di confraternite. All’epoca il problema con gli elettori non era la disinformazione, l’estremismo o il saltare tutti alla gola l’uno dell’altro – era che non ci prendevano nemmeno la briga di andare a votare.

Due decenni di tumulti populisti più tardi, queste testimonianze ci sembrano allo stesso tempo familiari e aliene. I fenomeni di rapida individualizzazione e il declino delle istituzioni collettive, registrati dagli autori citati, sono andati avanti. Salvo alcuni casi anomali minori, prevalentemente digitali, i partiti politici non hanno invertito la tendenza della perdita di iscritti, e così anche altri tipi di associazioni. I banchi delle chiese non si sono riempiti. I sindacati non sono risuscitati in massa dal punto di vista organizzativo. La competizione politica è ancora fortemente limitata, guidata da un ristretto cartello di politici di carriera e di specialisti sempre alla mercé dell’ostilità dei mercati. Queste mancanze non si limitano allo stato. In tutto l’Occidente, anche la società civile rimane impantanata in una crisi profonda e prolungata, e quello che passa per azione “politica” è monopolizzato da flash mob, imprenditori, ONG, personaggi di internet e filantropi. Almeno sotto questo aspetto, l’epoca della post-politica non si è ancora chiusa. Eppure alcune coordinate sono innegabilmente cambiate. 

Innanzitutto è difficile ritrovare oggi il cocktail di diffidenza, euforia e apatia, e il pesante sentimento post-storico così caratteristico degli anni Novanta di Tillmans e Ernaux. La banalità e l’eccitazione – l’”edonismo depressivo” diagnosticato dallo scrittore britannico Mark Fisher all’inizio degli anni Duemila – si sono trasformate in qualcosa di molto più profondo. Joe Biden è stato eletto presidente degli Stati Uniti con il numero record di 81 milioni di voti, mentre il suo avversario ne ha ricevuti 74 milioni. Il referendum sulla Brexit è stato il più grande voto democratico nella storia della Gran Bretagna. Il movimento globale di Black Lives Matter si è rivelato un successo di massa – al suo appello, molte delle aziende più grandi e dei personaggi più famosi del mondo sono saltati sul carro della giustizia razziale, da Jeff Bezos che ha ridisegnato il logo di Amazon a David Guetta che ha campionato i discorsi di Martin Luther King durante un dj set su un rooftop. L’avvilimento di Ernaux appare quindi esagerato. Le proteste per George Floyd, per esempio, sono state le più grandi della storia americana – migliaia di manifestazioni, con una partecipazione stimata in 26 milioni di persone negli Stati Uniti. Nell’estate del 2020, in altre parole, circa un decimo della popolazione americana adulta è sceso in piazza, con avvocati d’affari e adolescenti disoccupati che hanno partecipato a scontri di strada fino alle prime ore del mattino. Qualche mese dopo, QAnon e le proteste anti-lockdown hanno assaltato le istituzioni statali, dal Canada alla Germania. Piattaforme come TikTok, YouTube e Twitter sono piene di contenuti politici, dai vlogger che recitano opuscoli anarchici agli influencer di destra che si lamentano dei rifugiati. Le tematiche relative al consumo, dal veganesimo alle preoccupazioni per l’impronta climatica, hanno assunto un posto di rilievo nella vita delle persone. I manuali di auto-aiuto consigliano ai cittadini come individuare ed eliminare i pregiudizi razziali. Le bandiere e gli indicatori di genere proliferano sui profili Instagram e Twitter. 

Dai campi da calcio alle serie Netflix più popolari, fino al modo in cui le persone descrivono loro stesse sui social, emerge chiaramente una nuova sensibilità politica. Questa nuova situazione iperpolitica non può essere dimostrata rigorosamente dal punto di vista matematico, ma la tendenza è chiara: il nostro mondo è sempre più soggetto a proteste e polarizzazioni, ma orfano dei modi di azione collettiva ricorrenti nel corso del XX secolo. Infatti, mentre l’attività di protesta è aumentata nel corso degli anni Dieci e Venti del Duemila, e i media sono stati inondati di commenti politici, l’adesione ai partiti, la sindacalizzazione e la frequenza degli scioperi hanno continuato lungo la strada del loro vecchio e ostinato declino. Anzi, le due curve sembrano legate da una correlazione negativa: l’atmosfera di protesta coincide con il calo dell’impegno civico. Questi dati ci portano a concludere che la politica ha reclamato il suo posto nella società, e ha avuto in un certo senso la sua vendetta, tanto che alcune delle nostre istituzioni più potenti, dagli istituti d’arte ai partiti politici, passando per le reti televisive e gli organismi sovranazionali, sono state rimodellate da queste forti e dilaganti passioni politiche. Nonostante ciò, ben poche persone sono coinvolte nel tipo di conflitto organizzato che un tempo avremmo descritto, in senso classico e novecentesco, come “politica”. La confusione è aggravata poi da altri sviluppi: il neoliberismo non sta venendo sostituito da una rinascente socialdemocrazia; la globalizzazione non si sta frantumando in una “deglobalizzazione”, lo stato sociale non sta tornando nella sua forma classica postbellica. Il concetto di “iperpolitica” cerca di fare il punto su questa nuova e confusa situazione – e di renderla meno sconcertante.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *