Blog

  • Home

Iscriviti a Tempolinea




Seleziona la casella qui sotto per autorizzarci a inviarti le mail (niente spam)

Puoi annullare l’iscrizione in qualsiasi momento cliccando sul link che troverai in fondo a tutte le nostre mail. Per informazioni sulla privacy, visita il sito.

Usiamo Mailchimp come piattaforma per inviare le mail della newsletter. Premendo “iscriviti”, accetti che le tue informazioni saranno inviate a Mailchimp. Scopri di più sulla tua privacy su Mailchimp.


Gli attacchi del 7 Ottobre sono un punto di svolta nella storia del conflitto israelo-palestinese. Dopo aver parlato con il giornalista nativo di Gaza Ramzy Baroud dell’evoluzione della lotta palestinese, abbiamo intervistato Sai Englert, ricercatore esperto in politica israeliana, su quello che sta succedendo in Israele.

***

Negli ultimi anni quello palestinese era diventato una sorta di conflitto congelato. Dopo gli attacchi del 7 Ottobre la situazione sembra essere cambiata, e Israele sembra avere l’intenzione di risolvere il problema con la forza una volta per tutte. È una reazione allo shock degli attacchi o la testimonianza di un cambiamento più profondo?

Da un lato è innegabile che parte di ciò che sta accadendo è una reazione diretta agli attacchi del 7 Ottobre. L’aria di invincibilità di Israele è stata infranta dalla parte di popolazione palestinese rimasta rinchiusa in una gabbia per 18 anni, regolarmente bombardata (“tagliare l’erba”, come lo chiamano gli israeliani) e tenuta appena al di sopra della fame (“messa a dieta” è la crudele metafora utilizzata). Israele sta ora punendo collettivamente gli abitanti di Gaza con una violenza indescrivibile per ricordare al mondo e ai palestinesi del suo potere e della completezza del suo dominio coloniale.

Detto questo, è anche chiaro che una parte importante del regime israeliano sta pensando alla possibilità di cambiare lo status quo. Gli appelli a cancellare Gaza dalla mappa geografica e i documenti interni che riflettono sulla possibilità di spingere la popolazione della Striscia nel deserto del Sinai puntano chiaramente in quella direzione. Non è una novità: già nel 1967 Levi Eshkol rifletteva sulla possibilità di costringere i palestinesi di Gaza ad andarsene tagliando le loro forniture idriche, mentre Rabin sperava che Gaza semplicemente “sprofondasse nel mare”.

Ma l’Egitto e la Giordania sono totalmente contrari ad accogliere la popolazione palestinese espulsa. Inoltre è irrealistico che la popolazione palestinese rispetti gli ordini di espulsione, come stiamo vedendo oggi a Gaza – ricordano le campagne di pulizia etnica del 1948 e del 1967, e sanno che partire significherebbe non tornare mai più. Infine le masse nel Medio Oriente e nel Nord Africa si stanno mobilitando in solidarietà con la Palestina, creando un’importante pressione sulle classi dirigenti dei regimi arabi e sul loro protettore americano. La gente è scesa in piazza dal Marocco all’Iraq passando per l’Egitto, dove i manifestanti sono arrivati a riesumare lo slogan della rivoluzione del 2011.

Tutto ciò significa che un cambiamento fondamentale dello status quo sembra improbabile, per quanto il regime israeliano lo desideri. Purtroppo è probabile che per il momento continueremo ad assistere a violenti spargimenti di sangue a Gaza, in gran parte per consentire al governo israeliano di affermare di aver risposto al 7 Ottobre e di aver “punito Hamas”. 

 

L’Economist ha paragonato l’impatto e le possibili conseguenze del 7 Ottobre a quelli dell’Undici Settembre, un paragone molto utilizzato sia dalla propaganda israeliana che da quella statunitense. Ci sono effettive somiglianze tra i due eventi?

Ci sono somiglianze nel modo in cui entrambi gli eventi hanno colpito l’arroganza imperiale/coloniale e ricordato ai potenti che ci sono conseguenze – spesso orrende – alla straordinaria violenza necessaria per mantenere il loro dominio su milioni di persone. È anche vero che la risposta ad entrambi gli eventi è stata una vendetta cieca e sanguinosa, unita alla necessità di ricordare al mondo il loro potere – anche se vale la pena notare che quella stessa risposta è stata, a lungo termine, catastrofica per la stabilità dell’impero americano.

Ma è anche importante ricordare che questi cicli sono tipici degli imperi e degli stati coloniali. Gli oppressi, i dominati, i colonizzati reagiscono con qualunque mezzo a loro disposizione e la loro violenza rispecchia sempre quella inflitta contro di loro. Come ha scritto Saree Makdisi su n+1:

Durante la rivoluzione haitiana all’inizio del XIX secolo, gli ex schiavi massacrarono uomini, donne e bambini dei coloni bianchi. Durante la rivolta indiana del 1857, i ribelli indiani massacrarono uomini, donne e bambini inglesi. Durante la rivolta dei Mau Mau degli anni ’50, i ribelli kenioti massacrarono uomini, donne e bambini dei coloni. Ad Orano nel 1962, i rivoluzionari algerini massacrarono uomini, donne e bambini francesi. Perché qualcuno dovrebbe aspettarsi che i palestinesi – o chiunque altro – siano diversi? 

Fondamentalmente, tuttavia, penso che le somiglianze tra l’Undici settembre e il 7 Ottobre finiscano qui. Il paragone è utilizzato principalmente dai propagandisti israeliani nel tentativo di fare appello agli Stati Uniti e mobilitare la loro opinione pubblica a favore del loro attacco genocida contro la popolazione della Striscia di Gaza. Serve anche a oscurare le radici del 7 Ottobre: 75 anni di dominio coloniale israeliano e la violenza di 18 anni di terribile blocco militare. Un approccio che, a vedere le straordinarie manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese, sta fallendo

 

Negli ultimi mesi la società israeliana si è profondamente polarizzata: la riforma giudiziaria voluta da Netanyahu ha scatenato ampie proteste, e anche dopo gli attacchi del 7 Ottobre parte della stampa progressista si è immediatamente mostrata pronta a criticare le azioni del governo. Quali sono le prospettive di stabilità del paese anche all’indomani della guerra?

Per il momento, l’opinione pubblica si è spostata in modo deciso a favore delle forme di violenza più estreme, come sempre accade in Israele in tempi di “guerra”. Ci sono attacchi regolari contro gli arabi all’interno di Israele e quelle poche voci israeliane che rimangono critiche nei confronti del governo vengono silenziate e prese di mira. Le scene in cui le famiglie degli ostaggi, che chiedono al governo di riportare a casa i loro cari attraverso lo scambio di prigionieri, vengono aggredite e accusate di tradimento sono piuttosto sorprendenti in questo senso.

Detto questo, l’assalto genocida finirà e la società israeliana si rivolgerà alla resa dei conti interna. Sarei estremamente sorpreso se la carriera politica di Netanyahu sopravvivesse a lungo termine. Naturalmente ci sono stati molti suoi necrologi prematuri nel corso dei decenni, ma la “sicurezza” è il vitello d’oro della politica israeliana e un fallimento delle dimensioni di quello del 7 Ottobre non sarà perdonato così facilmente.

Inoltre verranno poste domande anche sulla risposta al 7 Ottobre. Una donna che si trovava nel Kibbutz Be’eri, ad esempio, ha spiegato in un’intervista alla radio militare israeliana che era sicura che molti degli abitanti del kibbutz fossero stati uccisi dai bombardamenti indiscriminati dell’esercito israeliano durante il processo di riconquista del kibbutz, sollevando interrogativi sul potenziale utilizzo della “dottrina Hanibal” – la politica dell’esercito israeliano di uccidere i propri soldati per evitare che vengano fatti prigionieri dal nemico – sui cittadini. Ci sono stati altri rapporti di giornalisti e ufficiali militari che puntano nella stessa direzione. E la questione degli ostaggi è simile: sembra chiaro che il governo Netanyahu abbia deciso di non preoccuparsi della loro sopravvivenza. Finora, sembra che l’opinione pubblica israeliana sia ampiamente preparata ad accettare questo approccio. Ma come considererà questa decisione la gente quando finirà la guerra?

Chiaramente la scommessa di Netanyahu è che bombardando a tappeto la Striscia di Gaza sarà in grado di ripristinare la sua immagine di uomo forte in grado di mantenere Israele in sicurezza. Ma le conseguenze del momento attuale, quando arriveranno, approfondiranno e intensificheranno le divisioni sociali e politiche a lungo termine all’interno della società israeliana.

 

La normalizzazione diplomatica con il mondo arabo, inizialmente presentata come l’affermazione della pace nella regione, è entrata in stallo. Cosa ci dice questo nuovo conflitto circa il futuro della diplomazia arabo-israeliana? E cosa può cambiare nei rapporti fra Israele e Stati Uniti, già dimostratisi meno energici che in passato nel sostegno al proprio alleato mediorientale?  

La normalizzazione regionale è stata un obiettivo a lungo termine sia delle classi dirigenti israeliane che di quelle statunitensi, a partire dalla sconfitta militare del nazionalismo arabo negli anni Settanta e dagli accordi di Oslo degli anni Novanta, per arrivare ai cosiddetti accordi di Abramo del 2020. Sono tutte espressioni istituzionali del riallineamento politico ed economico tra le classi dirigenti della regione.

Il cosiddetto pivot to Asia e la crescente indipendenza energetica statunitense hanno accresciuto l’importanza del processo di normalizzazione. L’idea è che i principali alleati degli Stati Uniti dovranno mantenere l’ordine e la stabilità nella regione mentre il centro dell’impero rivolge la sua attenzione all’Oriente. Questi accordi di normalizzazione sono stati ovviamente stipulati a scapito del popolo palestinese: i regimi arabi hanno abbandonato il sostegno retorico alla liberazione palestinese in cambio dell’accesso al mercato, alla tecnologia militare e di sorveglianza israeliane, e della piena integrazione nella sfera di influenza statunitense.

Il 7 Ottobre ha infranto l’illusione che ciò fosse possibile. La questione palestinese è stata catapultata di nuovo al centro del mondo politico regionale, costringendo i regimi fino a ieri crogiolatisi nelle comodità degli accordi di normalizzazione a schierarsi. Perfino la Giordania, di solito la prima a dimostrare il suo servilismo verso gli interessi degli Stati Uniti, ha annullato un vertice regionale e denunciato il doppio standard internazionale quando si tratta delle vite dei palestinesi, mentre l’Arabia Saudita ha avviato un intenso dialogo con l’Iran nel tentativo di prendere le distanze sia da Israele che dagli Stati Uniti nel caso di una più ampia conflagrazione regionale. Se questi atti non devono essere confusi con qualcosa di più di semplici manifestazioni pubbliche di ipocrisia, essi indicano comunque la reale pressione dal basso a cui sono sottoposti questi regimi.

Resta da vedere quanto durerà questo stato di cose. Dipenderà dall’intensità della mobilitazione in solidarietà con i palestinesi in tutto il mondo arabo, dal fatto che la guerra genocida in corso contro i palestinesi a Gaza scateni o meno scontri regionali più ampi, e da i potenziali riallineamenti strategici che questi due punti potrebbero generare.

 

Parlando della politica israeliana si fa raramente riferimento alla sinistra, tradizionalmente laica e legata ai movimenti per i diritti dei cittadini arabi. Come si colloca la sinistra nell’attuale dibattito interno israeliano? Si è adeguata al sionismo più violento, rivendica ancora la soluzione dei due stati o è possibile che vada verso l’affermazione di un nuovo stato multiconfessionale per arabi ed ebrei?

La sinistra israeliana è debole e isolata, e rimane in gran parte incapace di rompere completamente con il sionismo, anche quando sostiene maggiori diritti per i cittadini palestinesi o la soluzione dei due Stati. Nel momento attuale è diventata quasi impercettibile, anche se si è cautamente mobilitata per la richiesta di liberare gli ostaggi attraverso lo scambio di prigionieri.

Penso sia un errore aspettarsi un’azione decisiva da queste fazioni. La questione centrale per me è regionale. Il sionismo ha ricevuto il sostegno dell’Occidente per il ruolo strategico chiave che svolge al crocevia di tre continenti e al confine di una delle arterie commerciali più importanti del mondo: il Canale di Suez. Israele è l’inaffondabile portaerei dell’egemonia statunitense nella regione e proprio per questo gode del cieco sostegno dei governi occidentali. 

Al contrario, se Israele dovesse diventare una responsabilità strategica nella regione piuttosto che una risorsa, allora i governi occidentali ne prenderebbero le distanze per salvaguardare i propri interessi economici e politici in uno spazio cruciale dell’economia mondiale. Lasciato a se stesso, senza lo straordinario sostegno militare, economico e diplomatico di cui attualmente gode, il dominio coloniale di Israele sul popolo palestinese crollerebbe.

Questa analisi della natura del sionismo è ciò che ha portato la sinistra palestinese a identificare, negli anni Sessanta e Settanta, il carattere regionale della sua lotta di liberazione e ad affermare che la strada per la liberazione di Gerusalemme avrebbe dovuto passare attraverso le capitali dei paesi arabi, ed è anche ciò che dovrebbe spronarci all’azione in Occidente.


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *