Il dibattito pubblico italiano è monopolizzato per tutto l’anno da una miriade di micro-temi di cultura pop sempre diversi ma sempre uguali – tranne che nella settimana di Sanremo. Alice Valeria Oliveri – giornalista, host del podcast Il decennio breve e autrice di Sabato Champagne (Solferino, 2023) parla di questa assurda dimensione ossessiva del nostro paese.
***
Difficile decretare quale sia la citazione più gettonata di Boris. La frase sui toscani e il paese devastato ha una riproducibilità irresistibile, basta cambiare il paradigma e qualsiasi gruppo di cose o persone possono sostituire Panariello e Renzi. Un classico “F4-basita”, immediato e sintetico, o lo smarmellamento di Biascica, il “Dai dai dai” di René, la cagna maledetta. Boris è la messa in scena della cialtroneria all’italiana, l’argomento che più ci diverte dai tempi di Alberto Sordi e i ritratti grotteschi dei nostri Mostri, i finali mascalzoni alla Dino Risi, le situazioni ridicole monicelliane, e poi ancora, la volgarità ostinata e individualista nei personaggi dei Vanzina. “Un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”, è il ritornello che ripetiamo a ogni fine di Sanremo, a metà tra il compiaciuto e il rassegnato, ostaggi e complici della sbornia collettiva che ci prende nel corso di quei cinque giorni l’anno.
Ebbene letteralmente le musichette e la morte sono state al centro del dibattito pubblico in tutta la settimana post-sanremese. Comunicati stampa letti in diretta a Domenica In, in questo multiverso allucinante in cui Mara Venier parla a nome dell’ambasciata israeliana, mentre Amadeus a Porta a Porta difende i suoi cantanti in gara per l’uso di un’espressione come “Stop al genocidio”. L’ovvia conclusione di tutto ciò è che l’unico modo per fare interessare davvero l’Italia in modo trasversale e generalista al conflitto israelo-palestinese era metterlo in mezzo alla manifestazione canora più attesa dell’anno. E per qualche strana ragione, forse profezia auto-avverante, forse semplice corrispondenza tra reale e razionale, la musica è una delle pochissime cose che posizionano l’Italia al centro del discorso anche fuori dai suoi confini nazionali. Basti pensare a come Mahmood abbia scalato la classifica Spotify Global in pochi giorni, mentre sui vari social spopolano video-reaction della canzone vincitrice di Angelina Mango, con tanto di emoji bandierina italiana e frutto tropicale, fatti da utenti di varie nazionalità, impazienti di vederla all’Eurovision.
Era qualcosa che avevamo già visto nel 2021 con Sanremo, i Maneskin e l’Eurovision. Altro fiore all’occhiello della kermesse pilotata da Amadeus, la vittoria della band che ha portato chitarre distorte e strofe pazze sul palco, “giallo di siga tra le dita, io con la siga camminando”. Pochi mesi dopo, il successo all’Eurovision, il caso diplomatico della querelle con la Francia, le accuse a Damiano David di essere il più punk dei partecipanti, tanto sfacciato da dare una botta sul tavolino in diretta mondiale. Così l’Italia fa il suo ingresso trionfale nelle classifiche planetarie, riportando a casa la manifestazione nel 2022 e facendosi puntare tutti gli occhi addosso anche grazie alla prevedibile vittoria dell’Ucraina con i Kalush Orchestra. Dopo mesi di evidente marginalità, l’Italia ha finalmente modo di fornire il proprio umile contributo al dibattito geopolitico, fra Cristiano Malgioglio che commenta i concorrenti e il mondo in visibilio per le grazie della coppia Blanco-Mahmood.
È piuttosto singolare, a pensarci bene, che Sanremo sia il filo conduttore di tutte le notizie che hanno portato alla ribalta l’Italia in giro per il globo in questi ultimi quattro anni, con la sola eccezione dell’elezione della presidente Giorgia Meloni e le relative preoccupazioni sull’avanzare della destra alternate all’esultanza per una presidenza femminile – oltre che la fanfiction tra lei e il primo ministro indiano Narendra Modi, i Melodi. Nel febbraio del 2020, un attimo prima che l’Italia diventasse il primo focolaio d’Occidente, si era appena conclusa l’edizione di debutto di Amadeus. Oltre al successo in termini di ascolti, quel Sanremo è passato alla storia per l’affaire Morgan-Bugo, ma anche per la vittoria di Diodato. Pochi mesi dopo, quando tutti erano a casa a panificare, l’arena di Verona vuota è diventata simbolo trasversale e transnazionale della pandemia grazie alla sua esibizione, sempre per l’Eurovision.
Ed è tra Covid e musica che si è delineato il profilo della tempesta perfetta: la grande caduta di Chiara Ferragni. Tra le notizie incentrate sull’Italia apparse sul quotidiano inglese The Guardian negli ultimi mesi, oltre alla sparizione del gatto di Nino Frassica con annesse accuse di diffamazione, al presunto furto di dipinto del viceministro Vittorio Sgarbi – meno virale il video dello stesso che minaccia di tirarsi fuori il pene durante Report, peccato per l’occasione persa dalla stampa estera – e ai copiosi saluti romani di Acca Larentia, svetta il grande tema del rapporto tra beneficenza e influencer nato dalla vicenda dell’imprenditrice digitale che crolla rovinosamente sotto il peso delle sue stesse adv. Perché questo fatto è diventato un caso internazionale al pari di un affare di stato? Forse perché di rilevante in Italia, fatta eccezione per la musica e ogni tanto il cinema (C’è ancora domani con i suoi incassi inaspettatamente alti ha fatto il giro del mondo, diventando il Barbie neorealista) succede ben poco. Forse anche perché, fedeli alle nostre tradizioni storiche, come quando Cristoforo Colombo scoprì l’America per sbaglio, siamo destinati a essere pionieri involontari grazie a errori madornali.
Partiamo dalle origini. Prima del 2020, Chiara Ferragni viaggiava su un binario molto poco italiano, per restare sull’onda di Boris e para-citare Stanis La Rochelle. Il suo primo figlio, Leone Lucia Ferragni, è nato a Los Angeles, tutti i suoi video sono riassumibili in un “Ciao guys”, e il documentario a lei dedicato prodotto da Rai Cinema e Amazon Prime Video, Chiara Ferragni – Unposted, si divide fra interviste ad amici e colleghi americani, racconti dei suoi anni californiani e di come il mondo della moda l’ha sempre guardata con sospetto mentre occupava i front row delle sfilate. La pandemia è l’occasione perfetta per smentire il detto nemo propheta in patria: dalla sua terrazza di City Life, Ferragni e consorte diventano un punto di riferimento per i lunghi mesi del Covid, tra campagne di raccolta fondi e sponsorizzazioni di prodotti ben lontani dalla sua brand reputation, guadagnandosi un Ambrogino d’oro e coronando il tutto con una figlia nata alla clinica Mangiagalli di Milano. Il flusso di italianificazione della famiglia Ferragnez diventa così copioso da portarla sul palco dell’Ariston nel 2023, la vera consacrazione agli occhi del pubblico generalista. Il debutto su Rai 1, nelle prime serate più seguite dell’anno, non vanno come sperato, tra una letterina a sé stessa diventata parodia dell’egocentrismo autoreferenziale del personaggio, un abito-manifesto politico con slogan rubati ad artisti underground, un evidente scazzo col marito trasformato poi in uno speciale di Prime e le accuse di pubblicità occulta a Meta, Sanremo apre una crepa nella vita di una persona-brand fino a quel momento ritenuta too big to fail.
Andiamo avanti di un anno: l’attenzione su Chiara Ferragni si fa sempre più insistente e in casa Ferragnez arriva The big one; tutte le polemiche che li avevano investiti fino a quel dicembre 2023 non erano nulla rispetto all’affaire Balocco. Più che vaso di Pandora, potremmo chiamarlo il vaso del pandoro, Pink Christmas per la precisione, contenente anche biscotti, uova di cioccolato e donazioni non proprio trasparenti ad ospedali pediatrici legate alle vendite dei suddetti prodotti, innescando un effetto domino culminato in un ddl influencer, mentre l’opinione pubblica si divide nuovamente nella classica configurazione guelfi e ghibellini: c’è chi la difende a spada tratta, chi esulta per la sua caduta, ma quello che conta davvero è che tutti ne parlano. Un’altra commedia all’italiana, fatta di cialtroneria, miseria, sotterfugi e dichiarazioni bizzarre.
È difficile accettare che questi argomenti possano essere la principale materia da dibattito in Italia, ma tant’è. Il punto sembra essere la trasformazione del discorso pubblico nazionale in una continua alternanza fra l’autocelebrazione per i propri successi e la polemica tutto sommato sterile, per cui ogni Paola Cortellesi è irrimediabilmente seguita da un Vittorio Sgarbi. I due poli non acquisirebbero tale concretezza in qualunque contesto nazionale li si inserisca, essendo piuttosto la peculiare staticità dell’Italia a rendere tutto questo possibile. Nota a livello internazionale come “la minore delle grandi potenze” e definita dal settimanale The Economist “il vero malato d’Europa” addirittura nel 2005, l’Italia è da anni un paese in perenne crisi economica e sociale che sembra avere accettato la propria condizione, senza mostrare particolare interesse nella ricerca di una soluzione. Senza stare a scomodare le teorie sul “carattere dei popoli”, è pur sempre evidente come il paese si sia ritrovato suo malgrado nella posizione di anticipatore di tante tendenze che oggi possiamo individuare anche nel resto dell’Occidente, dall’immobilismo economico e demografico, all’affermazione dei cosiddetti partiti “populisti”; quello che ci distingue dagli altri è quindi la passività davanti a questi elementi, ora coccolati dai successi della sempre ricca produzione culturale nazionale, più tardi indignati dalle malefatte di chi dovrebbe portare alto il nostro nome in un mondo che si limita ad osservarci come una creatura strana ma tutto sommato inoffensiva. Insomma, l’Italia vive e i morti siamo noi.
E mentre fuori c’è la morte, i media coprono ogni spostamento d’aria che coinvolga il caso Ferragni. Una commedia grottesca che procede con il sottofondo di quelle musichette incessanti che ci fanno accapigliare per la seconda posizione a Sanremo di Geolier e che ci portano a trattare il televoto di una competizione canora come se fosse l’unico vero strumento di democrazia diretta a nostra disposizione. Le stesse musichette che spingono il sottosegretario della presidenza del Consiglio Alessandro Morelli a dire che sarebbe meglio mettere un Daspo per gli artisti che sul palco dell’Ariston parlano di altro, come hanno fatto Ghali e D’Argen D’Amico, in modo anche piuttosto diplomatico. E chissà se nel resto del mondo arriverà anche questa notizia.