Cosa succede quando c’è un prodotto culturale che è una metafora perfetta del presente, ma non è un prodotto della cultura di massa occidentale? Mattia Salvia – managing editor di Iconografie – cerca la risposta guardando la serie Netflix Il problema dei tre corpi, “un realismo capitalista di dimensioni cosmiche”.
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La trilogia Memoria del passato della terra di Liu Cixin, meglio nota con il titolo del primo libro Il problema dei tre corpi, è ben avviata a diventare la singola opera di finzione più rilevante di questo inizio di XXI secolo. Può sembrare un’esagerazione, visto che in Occidente è ancora un prodotto tutto sommato di nicchia e i passanti nella stazione Termini di Roma scambiano la pubblicità della serie Netflix per un cyberattacco contro Trenitalia, ma in meno di 20 anni – il primo libro è uscito in cinese nel 2006 – la trilogia è diventata un bestseller internazionale, il principale prodotto d’esportazione culturale cinese, e una serie Netflix messa in mano a Benioff e Weiss, i due creatori di Game of Thrones, con l’intento dichiarato di replicarne il successo globale, uscita la settimana scorsa. Tutto questo per tre libri che non potrebbero essere più ostici per il pubblico occidentale: i personaggi sono quasi tutti cinesi e il dispositivo narrativo che fa partire la trama è la Rivoluzione culturale. Quando non è la Cina a confonderti, ci pensano le parti su acceleratori di particelle, problemi di fisica, il paradosso di Fermi, protoni dispiegati in due dimensioni. Il primo libro è ambientato ai giorni nostri, ma quelli successivi si muovono tra i secoli e i millenni fino alla morte dell’universo. Eppure questa storia complessa, di un genere sottovalutato come la fantascienza, è diventata un fenomeno culturale di massa, evidentemente perché cattura qualcosa della temperie culturale e dei modi di vita della nostra epoca.
Leggo pochissima narrativa, ma ho letto l’intera trilogia (i cui titoli italiani, non letterali, riescono a essere insieme orribili e spoiler) per tre volte. La prima volta nell’estate del 2017, prima ancora che uscissero in italiano, poi nel 2020 e nel 2022, sempre in inglese. Nel corso degli anni sono diventati dei libri sui cui torno spesso quando ho bisogno di riposare il cervello, che leggo con il pilota automatico e che ogni volta mi danno da pensare. La loro forza non è la qualità della scrittura (almeno per quanto posso giudicare avendoli letti in traduzione), né la psicologia di personaggi, tutti piuttosto piatti e stereotipati, né la trama in sé: è il modo in cui riescono a metaforizzare le grandi questioni del presente. In questo senso sono più simili a un concetto classico che a uno moderno o postmoderno di letteratura. Da quando sono usciti i lettori ci hanno visto dentro di tutto, dai rapporti Cina-USA alle lotte ideologiche interne cinesi, dalle relazioni internazionali contemporanee alla critica della wokeness. Nel contesto cinese, come spiegato su Made in China Journal, Il problema dei tre corpi è diventato una sorta di manifesto per il gongye dang o “partito industriale”, un segmento dell’opinione pubblica cinese nazionalista, sviluppista e pessimista per quanto riguarda le relazioni internazionali; Ye Wenjie, che tradisce l’umanità pensando che gli alieni siano meglio, è stata interpretata come una rappresentazione degli intellettuali liberal cinesi degli anni Duemila; Zhang Beihai, che subordina tutto agli interessi del genere umano, è stato visto come il commissario politico modello, emblema della fusione tra eredità rivoluzionaria e proiezione verso il futuro della “Nuova Era” di Xi Jinping.
Adattare 3body allo schermo era un compito impossibile. Sia a livello puramente estetico, per la difficoltà di tradurre in immagini alcune delle scene dei libri – “I literally can’t visualize some of the things that are described in the book”, ha detto David Benioff intervistato da Wired. Sia (soprattutto) a livello culturale. Ormai siamo così abituati ai prodotti culturali coreani e giapponesi – penso a Parasite e Squid Game, per citarne due – che possono parlarci del presente senza bisogno di adattamenti: sono “occidentali all’asiatica” per così dire. Per i prodotti culturali cinesi è diverso. Il problema di 3body non è che la trilogia è troppo cinese, ma che è globale alla cinese. Un esempio è il modo in cui l’emergenza di un’invasione aliena viene affrontata: un’opera di finzione occidentale mostrerebbe la Situation Room della Casa Bianca, Liu Cixin mostra l’Assemblea generale dell’ONU. Così nel cercare di adattarla si finisce per renderla troppo occidentale: l’azione è spostata da Pechino a Londra; Wang Miao, Cheng Xin, Luo Ji, Yun Tianming e Hu Wen – cinque personaggi che nel libro non interagiscono quasi mai tra di loro – vengono trasformati in un gruppo di compagni di università di Oxford. Quel respiro globale che i libri, pur essendo sinocentrici, riescono a conservare viene perso. C’è un’emergenza globale, ma nella serie sembra che riguardi solo la Gran Bretagna. Le scene ambientate all’ONU, nel Palazzo di vetro di New York, che nei libri hanno un sapore globale, nella serie sanno di occidentale. Persino Shi Qiang, il personaggio più cinese di tutti, a un certo punto dice “sono di Manchester”.
La prima stagione della serie Netflix copre il primo libro e parte del secondo, trovandosi a dover mettere in scena alcuni dei momenti più importanti della trilogia. Nella prima di queste occasioni ci riesce alla perfezione. La scena del messaggio – l’umanità riceve la prima comunicazione da una civiltà aliena, e questa dice “Non rispondere! Non rispondere!! Non rispondere!!!” – è il momento più alto di tutta la prima stagione: tutta in silenzio, alternando i caratteri cinesi sullo schermo e lo sguardo di Ye Wenjie. L’adattamento cinese della trilogia, la serie Tencent uscita l’anno scorso, non aveva saputo fare di meglio. La seconda occasione è invece mancata completamente. Si tratta della scena Ye Wenjie incontra Luo Ji/Saul Durand sulla tomba di sua figlia Yang Dong/Vera Ye e gli enuncia in modo criptico gli assiomi fondamentali della sociologia cosmica, ovvero la teoria della “foresta oscura”. È una delle scene più importanti della trilogia: da quel momento Luo Ji diventa il bersaglio di innumerevoli tentativi di assassinio da parte degli alieni, che vogliono impedirgli di comprendere il senso delle parole di Ye Wenjie e scoprire la verità ultima sull’universo, assassinii che a loro volta fanno sì che venga scelto come campione dell’umanità. Nella serie l’intera teoria della “foresta oscura” è – per il momento – messa da parte, e la scena, pur annunciata col giusto pathos, diventa un’inutile lezioncina morale.
Può darsi che si tratti di una scelta temporanea per non caricare di troppi elementi la prima stagione in vista della seconda, o magari non è che un tentativo di smorzare il pessimismo intrinseco dell’opera di Liu, fondato sull’idea che l’universo sia una “foresta oscura” in cui tutte le civiltà stanno attente a non fare rumore per non attirare l’attenzione le une delle altre – uno dei passaggi più famosi della trilogia, nonché il modo in cui ci sono arrivato io personalmente, leggendone una citazione in un post su Reddit. È anche uno dei suoi temi più controversi, e di certo il più attuale: ci vuol poco ad applicare la stessa logica al mondo in cui viviamo. Le tensioni globali crescenti di questi anni sembrano infatti confermare quest’idea che il mondo non sia altro che uno stato di natura perenne, teatro di una incessante guerra di tutti contro tutti, dove ognuno è una potenziale minaccia per chiunque altro e le uniche strategie sensate sono la deterrenza o il rimanere nascosti. C’è un che di Kissinger in questa visione, e non è detto che Liu Cixin non ne sia stato influenzato – dopotutto lo statista americano era un grande “amico della Cina”.
“Una lezione ovvia delle invasioni di Iraq e Ucraina è che se non vuoi essere invaso devi avere le armi nucleari. Se Saddam avesse avuto l’atomica, l’Iraq non sarebbe stato attaccato. Se l’Ucraina non avesse ceduto le sue atomiche, non sarebbe stata attaccata”, ha scritto l’anno scorso l’economista Branko Milanovic riflettendo sul primo anniversario della guerra in Ucraina. La lezione che ne segue è agghiacciante: “l’unica vera protezione contro un attacco è la proliferazione nucleare”. L’attualità di 3body sta proprio nel fatto che prende questa lezione e la normalizza: è così e non c’è niente più di questo. L’unica cosa che conta è la struttura del sistema, le qualità degli attori che si muovono al suo interno sono indifferenti. Due civiltà si incontrano, e possono anche essere entrambe pacifiche e non violente, ma una genociderà sempre l’altra. There is no alternative. È un realismo capitalista di dimensioni cosmiche, presentato anzi come la legge fondamentale (segreta) dell’universo, ed è la morale perfetta per questi tempi schmittiani, in cui l’unica distinzione politica alla base di ogni atto è quella tra amico e nemico, umani e alieni. La fantascienza del passato si occupava di immaginare mondi e futuri alternativi, la fantascienza che abbiamo oggi chiude la porta a ogni possibile alternativa e proietta le nostre paure sul fondale dell’universo intero – e proprio per questo ci piace. Non potremmo essere più lontani dalle idee di Juan Posadas, il trotzkista argentino che nel 1968 in un famoso pamphlet invocò l’intervento degli alieni poiché, se esistono, sono necessariamente comunisti – la versione realmente esistita di Ye Wenjie.