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Nell’ultimo anno e mezzo, l’incredibile esplosione di violenza su Gaza ha spinto il dibattito pubblico a fare propri e discutere quasi ininterrottamente temi come l’autodeterminazione dei popoli, la resistenza armata e il diritto internazionale, costringendoci ogni volta a ridefinirne il significato. Questa non è una novità nel contesto del conflitto israelo-palestinese, anzi, ma la sua condizione normale. Nicola Lamri, dottorando in storia, sulle radici delle mire statunitensi sulla Striscia di Gaza.

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A seguito della vittoria alle elezioni presidenziali statunitensi di Donald Trump, ci siamo abituati a considerare normale qualcosa che normale non lo è affatto: il governo americano che rivendica la propria sovranità su territori che appartengono ad altri stati. Che si trattasse del canale di Panama, della Groenlandia o dell’intero Canada, ogni commento di questo tipo è stato immediatamente accolto con indignazione e con il secco rifiuto da parte degli interessati. Di tutte queste sparate, una in particolare ha fatto scalpore: l’interesse diretto di Trump verso la Striscia di Gaza.

In questo contesto, il copione abituale è stato stravolto, non solo poiché la proposta preveda l’evacuazione in massa dei suoi abitanti, o perché essa sia stata formulata dal leader di un paese che secondo il diritto internazionale non ha alcuna sovranità sul territorio in questione, ma soprattutto perché quest’ultimo ha deciso di accoglierla favorevolmente. Si tratta di un elemento tutt’altro che secondario, se si considera che nell’ultimo anno e mezzo erano diventate sempre più insistenti le voci che spingevano per l’annessione della Striscia a Israele; il caso più noto – sebbene si trattasse di una trovata pubblicitaria di cattivissimo gusto – è stato quello dell’azienda edile Harei Zahav che già nel dicembre 2023 aveva pubblicato su Instagram delle villette vista mare che sarebbero state costruite sulle macerie di Gaza City. Ben più seri, invece, sono stati la conferenza di gennaio 2024 “Settlement Brings Security”, volta a promuovere la ri-colonizzazione della Striscia e alla quale hanno preso parte ben undici ministri israeliani, e il piano “Gaza 2035” lanciato dallo stesso Netanyahu per promuovere la trasformazione del territorio in una zona economica speciale in sinergia con il megaprogetto saudita NEOM.

Tutto ciò potrebbe non sorprendere: nel corso del suo primo mandato Trump si è ripetutamente dimostrato uno dei più grandi sostenitori dell’espansionismo israeliano, riconoscendo la sovranità di Tel Aviv sulle alture del Golan e Gerusalemme come capitale del paese – iniziative che gli sono valse l’intitolazione di piazze, insediamenti coloniali e perfino una squadra di calcio. In realtà non si tratta che del punto di arrivo di un processo di lunga durata. Lunga almeno quanto l’esistenza della questione palestinese stessa. 

Già il 23 settembre 1952, un rapporto interno al Movimento democratico di liberazione nazionale – uno dei tre partiti comunisti attivi in Egitto nel secondo dopoguerra – tracciava un quadro della situazione a Gaza, venutasi a creare a seguito dell’armistizio firmato nel 1949 fra Israele e i paesi confinanti: la Striscia era ridotta a un poligono irregolare schiacciato fra il neonato Stato ebraico e il mar Mediterraneo, che nel giro di pochi mesi aveva vissuto un massiccio afflusso di rifugiati palestinesi, passati dai 75.000 residenti del 1947 ai 215.000 del 1948. L’immagine che ne risulta è desolante:

Dovremmo accordare un’importanza particolare alla regione di Gaza, che si trova ora completamente isolata dal territorio egiziano e dal mondo esterno in generale. Regione all’interno della quale 200.000 rifugiati arabi vivono in condizioni atroci. Inoltre, gli imperialisti anglo-americani vorrebbero trasformare Gaza in una base militare che si sostituirebbe a quella esistente nella zona del Canale di Suez e parlano oggi di “annettere Gaza a Israele”.

Benché datato, il frammento conserva una straordinaria forza evocativa. La devastazione procurata dall’aggressione israeliana nell’ultimo anno e mezzo e lo stato d’assedio imposto ai suoi abitanti come forma di punizione collettiva tracciano un’analogia impressionante con quanto scritto nel rapporto, redatto 73 anni fa. La differenza principale è di ordine quantitativo. La scala di distruzione raggiunta a Gaza nel corso degli ultimi 18 mesi e il numero di vittime sono effettivamente inediti, allorché i metodi genocidari impiegati da Israele si inseriscono in un discorso ben rodato in relazione al “problema” indigeno in Palestina, che accompagna l’identità dello Stato d’Israele fin dalla sua fondazione. Inoltre, torna la questione dell’annessione della Striscia di Gaza. Abituati a pensare i territori palestinesi nei termini dell’alternanza fra il regime dell’occupazione militare e quello della ghettizzazione, tendiamo oggi a dimenticare una fase della storia in cui lo strapotere israeliano non era un dato di fatto. 

La storia della Striscia durante il periodo che separa la guerra del 1948-49 e la guerra dei Sei giorni occupa un posto peculiare all’interno di quella, più generale, del consolidamento dello Stato ebraico. Prima di essere sottoposta all’occupazione militare diretta nel 1967, i suoi abitanti originari e i rifugiati continuarono a subire sulla propria pelle gli effetti delle controversie diplomatiche, i capovolgimenti politici e le guerre che sconvolgevano l’area. Le incursioni dell’esercito israeliano nei campi profughi si protrassero senza interruzioni ben oltre il 1948 alternandosi a piani di deportazione forzata dei suoi abitanti, a progetti di annessione e perfino alla cessione della striscia alla Gran Bretagna, al fine di trasferirvi le guarnigioni che all’epoca erano ancora stanziate presso il Canale di Suez. Nel frattempo, si moltiplicarono quelle che verranno definite dallo storico Benny Morris, vicino all’estrema destra israeliana, come “infiltrazioni arabe” in territorio israeliano su iniziativa del Ḥukūmat ‘Umūm Filasṭīn – il “Governo di tutta la Palestina” – ufficialmente proclamato proprio a Gaza nel 1948. Sebbene le incursioni dei fedayyin vengano spesso associate a un progetto eterodiretto dall’Egitto, in particolare a seguito dell’ascesa al potere di Nasser nell’estate 1952, un fenomeno di segno diverso inizia in questa fase ad affermarsi a Gaza: la pratica della resistenza armata nel quadro del nascente movimento nazionalista palestinese.

In questo contesto crebbero di numero e intensità sia le rappresaglie israeliane – come la strage del 28 agosto 1953, commessa dalla famigerata Unità 101 dell’esercito israeliano, sotto il comando del futuro Primo ministro Ariel Sharon – che i piani di trasferimento della popolazione di Gaza. Risale proprio al febbraio 1951 il progetto britannico di occupazione permanente del territorio citato sopra, mentre a Londra cominciava perfino a circolare l’ipotesi di scavare un canale alternativo a quello di Suez tra Aqaba e la stessa Gaza. Nel 1955, Stati Uniti e Gran Bretagna cercano di implementare l’Alpha plan: un progetto di resettlement dei rifugiati palestinesi, che avrebbero dovuto essere spartiti fra gli stati arabi e Israele. A 70.000 rifugiati stabilitisi a Gaza a seguito della Nakba sarebbe toccato il trasferimento coatto nel Sinai. Le imponenti mobilitazioni organizzate nella Striscia sotto l’egida del Partito comunista palestinese e dei Fratelli musulmani contro il piano Alpha ne scongiurarono l’attuazione. Scagliandosi a un tempo contro i tentativi angloamericani di ridisegnare l’architettura della regione e contro il dominio egiziano sulla Striscia, considerato tanto incapace di difendere i suoi abitanti dalle incursioni dell’esercito israeliano quanto colluso con le potenze occidentali, i gazawi contribuiscono al naufragio definitivo del progetto. La postura intransigente adottata in seguito da Nasser nei confronti di Israele nasce dal basso e si nutre delle forme di resistenza sorte tra i rifugiati di Gaza, e non viceversa.

Con la guerra di Suez del 1956, Gaza verrà occupata dai soldati dell’esercito israeliano. Si tratta della prima occupazione diretta della Striscia da parte delle truppe di Tel-Aviv, che si ritireranno solo nel marzo 1957. Sarà proprio nel corso di questi mesi che gli abitanti della Striscia impareranno a conoscere i durissimi metodi impiegati dalle forze di occupazione israeliane, sviluppando al contempo forme di resistenza inattese. Come evidenziato dal biografo di Ben Gurion, Michael Bar-Zohar, lo stesso premier israeliano rimase impressionato dalla resilienza dei suoi abitanti, quando durante una visita nelle città e nei campi profughi occupati si accorse che “i Palestinesi non erano fuggiti dall’IDF, come avevano fatto nel 1948”. I tentativi di trasferire gli abitanti di Gaza nel continente americano, preconizzati da Israele durante i mesi dell’occupazione, falliranno a causa della rigidità dell’alleato statunitense.

Il ritiro di IDF dalla Striscia e dal Sinai, a inizio 1957, segna la fine della dottrina della dispersione, che lo Stato ebraico e i suoi alleati cercarono di perseguire nel suo primo decennio di vita in merito alla questione dei rifugiati palestinesi. Poi, la virata dell’Egitto nasseriano verso il mondo socialista, l’ascesa del nazionalismo panarabo e la nascita dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) di Yasser Arafat contribuiranno a modificare radicalmente il quadro. Quando nel 1967, il Primo ministro israeliano Golda Meir, il suo Ministro della difesa Moshe Dayan e il suo Capo di Stato maggiore Yitzhak Rabin lanceranno l’offensiva a sorpresa contro i paesi confinanti e contro le milizie dell’OLP stanziate in Cisgiordania e a Gaza, passata alla storia come “Guerra dei sei giorni”, il paradigma sarà sostanzialmente mutato. Di fronte all’impossibilità di trasferire i rifugiati palestinesi altrove, inizia la fase dell’occupazione militare, che fa da corredo all’insediamento dei coloni nei territori palestinesi. Le due Intifade – la prima scoppiò proprio a Gaza nel 1988 – segnano la crisi di questo modello di governo nella Striscia: l’incremento demografico vertiginoso della popolazione palestinese e la forza d’urto dei combattenti portarono il governo di Ariel Sharon – che la popolazione di Gaza, come abbiamo visto, la conosceva bene – a decretare il ritiro unilaterale dei coloni e delle truppe di IDF dal territorio della Striscia, nell’agosto 2005. Da allora, il paradigma del ghetto ha sostituito quello dell’occupazione e Gaza è ripiombata nell’isolamento. Fino al 7 ottobre 2023.

Poche settimane dopo l’inizio dell’aggressione israeliana alla Striscia, avevo scritto che a Gaza si gioca innanzitutto una guerra di ordine demografico. Dietro alla retorica del “New Middle East”, cara a Benjamin Netanyahu, alle mappe plasmate sui confini del “Grande Israele” d’ispirazione biblico-messianica e alle bandiere israeliane piantate sui tetti delle scuole e degli ospedali gestiti dall’UNWRA, si nasconde un preciso progetto di sradicamento e dissoluzione della popolazione palestinese. Dalla proclamazione della nascita dello Stato ebraico in avanti, Gaza ha rappresentato l’ostacolo principale a questo progetto, rompendo di volta in volta ogni paradigma di controllo della popolazione sperimentato dallo Stato maggiore dell’esercito israeliano. Scrutare in profondità la storia del movimento nazionalista palestinese, permette di comprendere come gli attacchi al di là del recinto che circonda la Striscia messi in atto all’alba del 7 ottobre 2023, non siano altro che una riedizione delle incursioni dei fedayyin tipiche della prima, rudimentale, fase della lotta armata palestinese nel sud di Israele. 

Definito “creativo e rivoluzionario” da Netanyahu, anche il progetto trumpiano di deportazione degli abitanti dell’enclave – che oggi sono 2,4 milioni, più della metà dei quali sono rifugiati protetti dall’UNWRA – non è che la riproposizione di un copione già visto. Se le ambiguità del piano presentato da Trump a mezzo stampa non permettono al momento di fornire valutazioni accurate, resta evidente che un’ennesima mutazione prospettica è attualmente in corso. Se in un primo tempo egli ha proposto di “acquistare e possedere” Gaza, per farne una riviera “migliore di Monaco”, oggi il presidente americano sembrerebbe aver corretto il tiro, affermando che nella Striscia non vi è nulla da comprare e che gli Stati Uniti ne prenderanno semplicemente il controllo: “Nessuno avrà nulla da obiettare”. Insomma, è il ritorno del tópos delle terre indigene prive di rapporti di proprietà e quindi di radicamento umano degno di nota. We are not the Red Indians, rispondeva Arafat a chi sollevava il tema dell’autorità di Israele sui territori palestinesi a riprova della superiorità militare di Tel Aviv: nel caso palestinese, come negli altri esempi di scontro fra guerra rivoluzionaria e counter-insurgency, la questione del controllo del territorio è secondaria rispetto a quella del controllo della popolazione.

Mentre il cessate il fuoco vacilla e il genocidio sembra sul punto di riprendere il suo corso, il dibattito su chi abbia vinto la guerra apertasi diciotto mesi fa resta aperto. Ciò che è certo è che gli abitanti di Gaza hanno, per l’ennesima volta, scardinato un paradigma nella sorpresa generale. L’insostenibilità del modello del ghetto pare ora una certezza, mentre l’alleato statunitense sembra sul punto di intervenire direttamente sul campo a sostegno di Israele. Non succedeva da settant’anni, quando lo Stato ebraico non era che un progetto relativamente fragile e agli albori. Di questo, i gruppi che animano la resistenza a Gaza sembrano essere consapevoli. 

Al contrario, sembrano averlo dimenticato i leader politici e militari israeliani, che pur di liberarsi del rompicapo demografico, sembrerebbero determinati a cedere quello che loro considerano un pezzo del proprio territorio a una potenza straniera: gli Stati Uniti. Si tratta di uno strano paradosso che mette direttamente in discussione uno dei pilastri dell’identità collettiva israeliana, che si fonda sui miti politici dell’unità e dell’indipendenza nazionale conquistate autonomamente nella lotta contro i britannici, prima, e contro gli stati arabi confinanti, poi.


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