Blog

  • Home

Pochi miti politici sembrano duri a morire quanto l’idea che le amministrazioni Trump siano meno militariste di quelle democratiche. Dopotutto è lo stesso presidente americano a ribadire continuamente questa leggenda e sembra mal sopportare chi non vuole dargli ragione. Leonardo Bianchi – giornalista esperto di estrema destra – ci mostra che la verità, però, è decisamente differente e che si possono trovare le radici di questa menzogna nello stesso programma politico di Trump.

***

Tra le tante e varie ossessioni di Donald Trump ne spicca una in particolare per la sua apparente stranezza: vincere il premio Nobel per la pace. Il presidente degli Stati Uniti è letteralmente consumato dal desiderio di conquistare quel trofeo, al punto tale da continuare a criticare l’assegnazione del premio a Barack Obama e da aver telefonato al ministro delle finanze norvegese Jens Stoltenberg – che, ironicamente, fino all’ottobre del 2024 è stato il segretario della Nato – proprio per fare pressioni indebite sul comitato. I leader politici di tutto il mondo fanno ampiamente leva su questa fissa per solleticare la sua megalomania e incassarne facilmente il favore. Lo scorso 10 ottobre, subito dopo la firma della fragilissima tregua tra Hamas e Israele, il premier israeliano Benjamin Netanyahu aveva pubblicato su X un’illustrazione fatta con l’intelligenza artificiale in cui Trump veniva insignito del Nobel (sotto forma di grosso medaglione d’oro al collo) in una specie di cerimonia che ricordava un match della WWE.

Almeno per quest’anno, però, quella scena è destinata a rimanere una fantasia generata sinteticamente: il premio è stato infatti assegnato a María Corina Machado, la leader dell’opposizione venezuelana, che comunque ha ritenuto opportuno dedicare il riconoscimento a Trump. Il presidente degli Stati Uniti l’ha presa ugualmente male: il Nobel sarebbe stato il massimo tributo al suo ego, e soprattutto la validazione della mitologia del “presidente della pace” – quello che, a differenza dei suoi predecessori, non inizia le guerre, ma anzi le fa finire grazie alla sua innata arte del deal, da sempre al cuore dell’autonarrazione che Trump ha fatto di se stesso già da quando le sue ambizioni restavano limitate al mercato immobiliare. E dopotutto, già nel corso del proprio primo mandato alla Casa Bianca, il presidente amava organizzare incontri diplomatici di grande impatto mediatico ma dalle scarse conseguenze reali – come quello col nordcoreano Kim Jong-un o gli accordi di Doha tra il governo afghano e i talebani.

Non si tratta di una sparata o di una grossolana boutade propagandistica: Trump sembra essere seriamente convinto di essere un genio della negoziazione, capace di elevare tale arte dagli affari alla diplomazia internazionale (e, va detto, non è l’unico a pensarlo). In varie occasioni, sia sulla sua piattaforma Truth Social che nel corso di eventi pubblici e conferenze stampa, si è vantato di aver fatto terminare un numero di conflitti che varia tra i sette e i dieci. L’ultimo, per l’appunto, è quello tra Hamas e Israele – che tuttavia è ben lontano dall’essere risolto, tanto che il cessate il fuoco è stato violato più di ottanta volte dall’esercito israeliano. Gli altri sarebbero quelli combattuti negli ultimi mesi tra Israele e Iran, Pakistan e India, Ruanda e Repubblica Democratica del Congo (RDC), Thailandia e Cambogia, Armenia e Azerbaijan, Egitto ed Etiopia e Serbia e Kosovo.

Come hanno sottolineato varie analisi e articoli di fact-checking, nella maggior parte dei casi si è trattato di annunci trionfanti che andavano a ingigantire indebitamente la portata di tregue temporanee, cessate il fuoco di discutibile equità o accordi la cui implementazione è, a essere ottimisti, oltremodo incerta. Il conflitto tra Israele e Iran, ad esempio, è stato semplicemente sospeso e il nodo centrale – il programma nucleare iraniano – rimane del tutto irrisolto, senza contare che la mediazione tra le parti è stata possibile proprio grazie a un intervento diretto statunitense contro la Repubblica islamica. La guerra tra Ruanda e RDC non si è mai fermata davvero, visto che il gruppo ribelle M23 (sostenuto dal governo ruandese) continua a scontrarsi con le truppe congolesi, così come è rimasto di fatto senza soluzione anche lo scontro tra Thailandia e Cambogia e la decennale disputa sui confini tra i due paesi non si è affatto conclusa. Come se non bastasse, tra Serbia e Kosovo non c’è nemmeno stata una guerra. Ma poco importa: Trump ha detto di averla evitata preventivamente e l’ha conteggiata in quelle finite.

Il punto è che il 47esimo presidente ha la cattiva abitudine di scambiare la semplice cessazione (anche solo momentanea) delle ostilità con la pace vera e propria. Nella realtà, arrivare a una vera risoluzione dei conflitti armati è un’impresa difficile e piena di incognite. “Non basta una telefonata o un incontro, per quanto carismatico o persuasivo possa essere il mediatore”, ha scritto l’ex ambasciatore statunitense Ivo Daalder su Politico. “Servono conoscenze approfondite, negoziati sfiancanti, la ricerca di compromessi e un equilibrio tra incentivi e pressioni per ottenere risultati”. A volte non basta nemmeno questo, e per qualcuna delle parti coinvolte continuare a combattere può essere un’alternativa preferibile a sedersi al tavolo dei negoziati.

La guerra tra la Russia e l’Ucraina è lì a ricordarcelo ogni singolo giorno. In campagna elettorale Trump aveva promesso decine di volte di sapere come risolverlo in appena 24 ore, ma da quando è tornato alla Casa Bianca non c’è stato alcun progresso tangibile. Anzi: se possibile, la situazione è decisamente peggiorata sotto diversi aspetti. Dal lato russo, abbiamo visto come i bombardamenti sulle città ucraine si siano fatti sempre più intensi e letali, mentre l’incontro dello scorso Ferragosto con Vladimir Putin in Alaska è andato malissimo. Pure quelli con Volodymyr Zelensky sono stati disastrosi al punto che nell’ultima occasione in cui il presidente ucraino si è recato in visita a Washington, stando a un retroscena del Financial Times, Trump si sarebbe messo a urlare e avrebbe gettato a terra le mappe dell’Ucraina con la linea del fronte, dicendo di non poterne più di vederle.

La gestione del conflitto in Ucraina – che Trump vorrebbe far finire al più presto non tanto per amore della pace tra i popoli, ma per liberare risorse economiche e militari da impiegare nello scontro con la Cina – è dunque una grossa crepa nella narrazione del “presidente di pace”. Ma non è di certo l’unica. La postura internazionale della sua amministrazione è fortemente isolazionista e molto aggressiva; due atteggiamenti che, a proposito di Nobel per la pace, sono contrari allo spirito stesso del testamento di Alfred Nobel, volto a promuovere la cooperazione tra le nazioni. Una delle prime cose che ha fatto Trump una volta tornato alla presidenza, tanto per cominciare, è stato il drastico taglio degli aiuti statunitensi verso l’estero con lo smantellamento di USAID (l’agenzia governativa per lo sviluppo internazionale). In virtù di questa decisione, sono stati immediatamente ridotti o completamente eliminati programmi umanitari rivolti alla gestione della carestia in Sudan o alla promozione delle campagne di vaccinazione nell’Africa subsahariana. Questa decisione, poco sorprendentemente, avrà un impatto devastante: secondo una ricerca pubblicata su The Lancet potrebbe causare fino a 14 milioni di morti evitabili, tra cui 4 milioni di bambini sotto i cinque anni.

Oltre a ciò, il presidente americano ha ufficiosamente ribattezzato il Dipartimento della difesa in “Dipartimento della guerra” e annunciato che nel 2026 il budget stanziato per la difesa sfonderà per la prima volta in assoluto il tetto del triliardo di dollari. Un’attitudine minacciosa che non sorprende, se si considera che Trump ha inaugurato il proprio mandato minacciando di voler annettere il Canada e farlo diventare il 51esimo Stato. Non pago, ha portato avanti le medesime richieste relativamente alla Groenlandia, spingendo il governo danese a convocare l’incaricato d’affari per chiedere delucidazioni sull’operazione d’influenza segreta nel favoreggiare le forze indipendentiste e fomentare sentimenti anti-danesi nel territorio semi-autonomo. L’amministrazione Trump ha poi intensificato i bombardamenti nelle zone controllate dagli Houthi nello Yemen: nell’aprile del 2025 l’aeronautica ha distrutto il porto petrolifero di Ras Isa, causando 74 vittime e 171 feriti – la maggior parte delle quali formata da operai e civili. Anche cinque paramedici sono morti a causa degli attacchi statunitensi. 

In piena continuità con l’aggressività mostrata nel corso della propria prima presidenza nei confronti dell’America latina, negli ultimi mesi le forze speciali statunitensi hanno colpito almeno otto imbarcazioni di presunti narcotrafficanti venezuelani sia nel Mar dei Caraibi che nell’Oceano Pacifico, uccidendo più di 30 persone. Questi assassinii extragiudiziali, contrari al diritto interno statunitense così come a quello internazionale, sono con tutte le probabilità soltanto l’inizio di una campagna ancora più aggressiva nei confronti del Venezuela – secondo un articolo del New York Times, Trump avrebbe autorizzato la Cia a compiere “operazioni speciali” per rovesciare il governo di Nicolás Maduro. Di sicuro la presenza militare statunitense nei Caraibi è stata considerevolmente incrementata: attualmente sono stanziati nella regione ben diecimila soldati, più di duemila marines, otto navi da guerra e un sottomarino.

La smentita più clamorosa all’assurdo mito del Peacemaker-In-Chief non arriva però dalle relazioni internazionali statunitensi ma dalle azioni e dalle politiche dispiegate in patria. Se all’estero Trump si presenta come l’uomo della pace, negli Stati Uniti è un presidente in guerra contro le persone migranti, il “crimine”, gli Antifa, le città guidate dai democratici, i democratici stessi – e chi più ne ha, ne metta. E anche in questo caso non siamo di fronte a un modo di dire o ad una provocazione: il presidente e i repubblicani fanno più che mai sul serio. Due giorni dopo l’omicidio dell’attivista e influencer Charlie Kirk, ad esempio, il potente vicecapo di gabinetto Stephen Miller aveva avvertito gli oppositori politici in diretta su Fox News con queste parole: “Noi non vivremo nella paura, ma voi vivrete in esilio, perché il potere delle forze dell’ordine, sotto la guida del presidente Trump, sarà usato per rintracciarvi, per portarvi via il denaro, per privarvi del potere e, se avete infranto la legge, per togliervi la libertà”. Anche nella nuova Strategia di Difesa Nazionale si dice esplicitamente che il “nemico interno” è una minaccia maggiore della Cina o della Russia. Un principio che, rivolgendosi a generali e comandanti dell’esercito lo scorso 30 settembre, Trump ha ribadito in maniera molto chiara: il vero avversario si annida nelle “città pericolose d’America”, che vanno considerate come dei veri e propri “campi d’addestramento”.

Per quanto riguarda l’ICE, l’agenzia federale per il controllo dell’immigrazione e delle frontiere che Trump sta trasformando nella propria polizia paramilitare personale, è così già da tempo. Ogni giorno agenti mascherati rapiscono gente per strada, nelle loro abitazioni, nei tribunali o sui posti di lavoro. Le persone sequestrate finiscono poi in centri di detenzione privati, lontani migliaia di chilometri da dove vivono e senza nessuna possibilità di contattare la famiglia o i legali; o ancora peggio rischiano di essere deportati nel CECOT, il campo di concentramento dell’autocrate salvadoregno Nayib Bukele che l’amministrazione Trump ricopre di soldi per internare persone arrestate in territorio statunitense. Anche la comunicazione ufficiale del Dipartimento della sicurezza interna (DHS), da cui dipende l’ICE, si sta facendo sempre più fascista e militaresca, in netto cambiamento rispetto a una prima fase in cui i toni erano più memetici e tendevano alla crudele ridicolizzazione delle persone deportate. Il 21 ottobre, per esempio, il profilo del DHS ha pubblicato su X un’illustrazione in cui compaiono dei cavalieri medievali con le spade sguainate e la scritta “i nemici sono alle porte”. Per diversi osservatori, quell’iconografia rievoca in maniera diretta la propaganda suprematista e nazista del secolo scorso.

Negli ultimi mesi Trump ha poi impresso una decisa accelerazione alla militarizzazione della vita pubblica statunitense, ordinando il dispiegamento della Guardia Nazionale in svariate grandi città americane come Los Angeles, Washington D.C., Chicago, Memphis e Portland. La ragione ufficiale sarebbe la lotta a una criminalità ormai fuori controllo, che la sola polizia non sarebbe più in grado di gestire. Anzi: il presidente ha descritto Portland, basandosi soprattutto sui servizi allarmistici di Fox News, come “un inferno in terra” in cui “si vedono solo incendi, risse e violenza pura”. Naturalmente i dati raccontano tutt’altra storia, ossia quella di reati effettivamente in calo in tutto il paese. Dopotutto si tratta di un chiaro pretesto: il vero motivo per mettere in piedi un tale dispiegamento di forze armate è che (a parte Memphis) si tratta di città amministrate da democratici, in stati democratici. Il progetto della presidenza, insomma, si può dunque serenamente riassumere in una palese forma di intimidazione politica, fatta apposta per cercare l’incidente clamoroso e giustificare lo stato d’emergenza o la sospensione delle libertà civili.

A tal proposito Trump ha già fatto intendere che è pronto a invocare l’Insurrection Act, una norma risalente al 1807 che permette al presidente di mobilitare l’esercito per svolgere funzioni di polizia civile in determinate circostanze di estrema emergenza. Stava per farlo già nel 2020 all’apice delle rivolte per l’omicidio di George Floyd, ma alla fine aveva desistito a causa di resistenze interne alla sua prima amministrazione, durante la quale il trumpismo era ancora costretto alla convivenza con le correnti più tradizionalmente conservatrici del Partito repubblicano. Ora che il movimento politico esiste soltanto in funzione della volontà del presidente e della sua cricca, non solo quelle resistenze non ci sono più, ma la proclamazione della legge marziale – perché di quello si tratterebbe, è inutile girarci attorno – è un esplicito programma di governo. Il “presidente della pace”, da vero Cesare rosso, cerca una “pace” frettolosa all’estero per fare meglio la guerra in casa propria.


foto CC BY 4.0 Paul Goyette

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *