Israele bombarda l’Iran, l’Iran bombarda Israele, gli Stati Uniti bombardano l’Iran – ma ciò che rimane della guerra sono solo video e foto estetiche. Noi che guardavamo, intanto, parlavamo di terza guerra mondiale o facevamo meme. Piervittorio Milizia – editor di Iconografie – commenta il racconto visivo della “guerra dei 12 giorni”.
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Ogni volta che gli Stati Uniti attaccano l’Iran, per qualche motivo sui social si inizia a parlare di guerra mondiale. La situazione tra i due paesi è senza dubbio estremamente tesa e minaccia da decenni di esplodere in un conflitto potenzialmente disastroso, ma questo non basta a spiegare la reazione quasi pavloviana del pubblico. Era già successo nel gennaio 2020 – appena prima che iniziasse la pandemia, un altro momento para-apocalittico – quando l’assassinio a Baghdad dell’importantissimo generale iraniano Qasem Soleimani aveva fatto diventare #WWIII trending topic su Twitter, con i meme sul disertare la chiamata alle armi o sull’impreparazione alla guerra degli zoomer. Ed è successo di nuovo nelle ultime settimane con quella che è stata già battezzata “guerra dei 12 giorni”.
Eppure c’è stato qualcosa di strano in questa guerra, qualcosa che non l’ha fatta sembrare una guerra reale ma piuttosto una sorta di recita mal interpretata, in cui gli attori recitavano a braccio le proprie parti e alla fine si restava tutti a disagio nel vedere una rappresentazione mediocre. Non parlo solo della dimensione spettacolarizzata del conflitto che, per quanto ormai normalizzata, non smette di fare impressione – come evidenziato dai numerosissimi contenuti virali prodotti da questa guerra: i video dei missili iraniani che colpivano Tel Aviv trasformati nella canzone dell’estate, i video delle persone che li osservavano nel cielo mentre facevano serata. Questo rigurgito di contenuti nei nostri feed è ormai tale che non ne problematizziamo più nemmeno l’esistenza, la diamo semplicemente per scontata. Mi riferisco invece a una questione ben più fondamentale che riguarda il modo in cui l’opinione pubblica mondiale guarda e reagisce a tutto questo, e al modo in cui le sue reazioni condizionano gli scambi di colpi tra le due parti – un punto cruciale, essendo da sempre la questione israelo-palestinese una delle più polarizzanti in assoluto.
Da qualche decennio a questa parte ormai tutte le guerre sono spettacolo. Il primo a parlarne fu il filosofo francese Jean Baudrillard in riferimento alla prima guerra del Golfo, avendo notato una inedita coincidenza tra narrazione propagandistica degli eventi bellici e l’immensa quantità di documentazione prodotta che però poneva le basi per la messa in crisi di tale racconto. Questa pelle ambigua dei conflitti contemporanei, poi, si è perfezionata durante la guerra civile siriana grazie alla diffusione dei social media e infine è stata definitivamente sdoganata in Ucraina. Ed eccoci oggi a seguire la guerra dai nostri feed social tramite un numero infinito di piccole clip non solo di combattimenti ma anche di intrattenimento: il gatto che abbatte il drone russo con una zampata, il soldato ucraino mancato di pochissimo da un drone che reagisce facendo la faccia scioccata resa famosa dai thumbnail di YouTube, i soldati russi che vanno in giro in monopattino e così via. La guerra è diventata a tutti gli effetti una delle rubriche della Paperissima Sprint permanente che è l’era dei social.
Eppure, sotto questa miriade di clip bizzarre, c’è effettivamente sempre nascosta in piena vista una guerra vera – e noi che le guardiamo sappiamo che c’è, e abbiamo molto chiara in testa la sua presenza dal momento che altrimenti le clip virali non potrebbero esistere. Anche la “guerra dei 12 giorni” è stata reale, ovviamente: le bombe ci sono state, la distruzione pure, la morte anche. Eppure la sua dimensione reale è stata molto più secondaria, molto più nascosta, perché è stata sussunta nella sua stessa rappresentazione. Non c’è stata alcuna separazione tra il racconto del fatto e il fatto in sé, e il fatto stesso è dipeso in larga misura dal suo racconto. Mentre dall’Ucraina arrivano sì video bizzarri ma anche immagini inequivocabilmente drammatiche – ad esempio i video dei bombardamenti su Kiev – e questi due tipi di contenuti li guardiamo con occhi diversi, consumando solo i primi come intrattenimento, nel caso della guerra tra Iran e Israele non è stato così. In praticamente tutti i contenuti prodotti dal conflitto non era possibile separare le due dimensioni.
Lo spiega bene la foto virale del ragazzo giordano che si mette in posa con i missili iraniani diretti verso Israele – solo un esempio tra tanti. Quando gli ho scritto per chiedergli come viva il fatto di essere il protagonista di uno degli scatti più iconici degli ultimi anni, ho scoperto che ha lui stesso ben chiaro il tema della narrazione della guerra – “una foto per i figli dei miei figli” è stata la didascalia che ha usato per la foto su Instagram – e che nel mettersi in posa coi missili voleva sfottere l’abitudine degli anziani di estremizzare i racconti sul proprio passato, un po’ per la consapevolezza circa la concomitanza di crisi tipica del mondo contemporaneo – “prezzi folli, relazioni strane ovunque, nessuna morale, il COVID e ora anche la guerra”. Per lui, in effetti, è normale che il conflitto venga esorcizzato nello scherzo e ha sottolineato l’importanza di avere un po’ di umorismo in un’epoca marchiata dal proliferare delle guerre. Non ci resta che ridere, insomma. Qualcosa di simile ai sentimenti che animavano qualche anno fa Rashid al-Haddad, meglio noto come “Timhouthi Chalamet”, il miliziano houthi yemenita sosia dell’attore americano diventato anche lui virale sui social.
C’è un altro aspetto in cui questa guerra è stata diversa. È stata una guerra in cui entrambe le parti sono state estremamente consapevoli di muoversi sotto i riflettori e di dover badare a un’opinione pubblica mondiale che negli ultimi due anni è stata in varia misura profondamente coinvolta dalla situazione in Medio Oriente. Nessun’altra questione di politica internazionale ha un tale ascendente sull’immaginario di così tante persone anche estremamente lontane dal fronte, riempiendo le piazze di letteralmente tutto il mondo e costringendo fondamentalmente chiunque dagli Stati Uniti al Bangladesh, dalle Filippine alla Francia, a prendere una posizione. Nella guerra russo-ucraina questa dimensione è stata molto meno presente, quantomeno a livello globale. Zelensky all’inizio ha provato a sfruttarla, facendo leva sulla narrazione dello scontro frontale tra democrazia e autoritarismo, ma si è poi dovuto rivolgere verso l’interno quando è diventato evidente che tale racconto aveva sempre meno attrattiva; all’opposto Putin si è sempre preoccupato in primis proprio della mobilitazione interna. E proprio questo focus generale verso l’interno è il motivo per cui, nel caso russo-ucraino, la guerra come verità ha ancora la preminenza sulla guerra come rappresentazione.
Israele e Iran sono invece sembrate combattersi costantemente oltre il proprio avversario per legittimare le proprie azioni. Entrambi affermano di combattere non per sé ma per altri: l’uno per proteggere il mondo dall’atomica iraniana, l’altro per difendere la popolazione palestinese. Il risultato di questa situazione è che, alla fine, finiscono per essere abbastanza limitati i loro stessi combattimenti. Le IDF, che per due anni abbiamo visto non farsi mezzo problemi a radere completamente al suolo la striscia di Gaza, adesso colpiscono l’Iran con attacchi estremamente precisi. L’Iran risponde lanciando poche decine o, più raramente, qualche centinaio di missili, pochi o nessuno dei quali vanno effettivamente a segno. E più delle immagini dei danni, ci arrivano le immagini delle traiettorie dei razzi nel cielo e delle persone eccitate dalla visione di quei puntini luminosi.
Occorre a questo punto ricordare che, se la posizione internazionale di Israele è sempre più in crisi, non se la passa certo meglio l’Iran. Lo stesso ragazzo giordano della foto mi ha detto che, sebbene rispetti il paese per il suo sostegno per la Palestina, è ben consapevole del ruolo negativo svolto in altri contesti – citando in questo senso l’intervento in Siria a sostegno di Assad. L’Iran, in effetti, vive una profonda contraddizione politica: da un lato è un paese nato in diretta ed esplicita contrapposizione con l’imperialismo americano, dall’altro non ha la forza per svolgere questa funzione a fondo. Alla firma del cessate il fuoco tra Israele e Iran ne ho parlato con Ervand Abrahamian, professore di storia al Baruch College di New York e uno dei massimi esperti di Iran contemporaneo: Abrahamian ha sottolineato come “se l’Iran sparisse dalla faccia della terra, la questione palestinese resterebbe in piedi” e che Israele aveva già in passato supportato la guerra in Iraq del 2003 nella convinzione di chiudere il problema, senza ovviamente ottenere i risultati sperati.
D’altra parte, l’Iran deve affrontare anche la sua crisi di legittimità interna: la rivoluzione del 1979, come ricordato da Abrahamian, “fu un vero movimento di massa” ma la progressiva repressione dei movimenti liberali, di sinistra e secolaristi ne compromise la popolarità, al punto che ad oggi “il supporto per il regime si è ridotto al 10-15%”. Eppure la società iraniana resta vivace e attiva. Secondo lo storico “i movimenti di protesta e le elezioni a sorpresa di Khatami, Rouhani e Pezeshkian mostrano che c’è un diffuso desiderio per una società più aperta”, una rivendicazione che per il proprio stesso contenuto “che minaccia gli ideali teocratici”. Allo stesso modo, l’intervento israeliano e statunitense contro il paese non avrebbe in alcun modo portato all’affermazione della democrazia, anzi, secondo Abrahamian “rafforzerà il regime” che proprio sulla base della guerra potrà legittimare un’ulteriore svolta repressiva. Qualcosa del genere, dopotutto, si è già visto in Iran, all’indomani dell’invasione iraqena del 1980 e trasformatasi in un devastante conflitto lungo otto anni e costato la vita a mezzo milione di persone. All’epoca, l’Iran era appena uscito dalla rivoluzione e l’attacco non fece che unire la popolazione al proprio governo che ha acquisito “l’esperienza per affrontare le minacce esterne – in termini di economia di guerra, razionamenti e propaganda”. La guerra appena conclusa non ha portato al collasso della repubblica islamica e, in effetti, “soltanto i monarchici e quei Mojahedin fuori dal paese” si sono illusi che questo potesse accadere.
Al contrario, l’Iran nell’ultimo anno ha decisamente rafforzato la propria immagine anche nei paesi occidentali, dopo aver toccato i propri minimi storici con la durissima repressione del movimento di protesta “Donna, vita, libertà”. Schierandosi apertamente in sostegno della Palestina, il governo di Teheran ha potuto in un certo senso ripulire la propria immagine e sono valsi a poco gli appelli dei movimenti di opposizione a ricordare la natura violenta e reazionaria del regime. Niente da fare: la Guida Suprema Ali Khamenei è diventato un modello di resistenza e – soprattutto – un meme. Sono stati ripescati in rete vari commenti del leader del paese, da anni attivissimo su Twitter con più profili in varie lingue diverse, venendo così trasformato da clerico reazionario ad un timido nerd o autore di frasi motivazionali.
In un mondo in cui gli individui sono sempre più osservatori passivi e impotenti e in cui uno status quo in crisi si dibatte nella contraddizione tra il dover cambiare e il non poter cambiare, ogni nucleo di politica reale viene sempre più avvolto in una nube di rappresentazione e spettacolo. E, allo stesso tempo, questa nube di spettacolo abbisogna sempre di un po’ di politica reale in più. È una dinamica che proprio i missili iraniani ci hanno mostrato bene negli ultimi anni. Nell’aprile e nell’ottobre 2024 l’Iran aveva già lanciato due ondate di missili contro Israele. La prima volta era stato un attacco simbolico (non c’erano state vittime, un solo ferito). La seconda volta era stato un po’ più reale (due morti). Adesso lo è ancora di più. Ma la dimensione simbolica rimane preminente. E questa spettacolarizzazione gonfia di significato ogni evento, mentre allo stesso tempo ne limita la durata. I cittadini sono passivi e vanno intrattenuti, lo status quo è in difficoltà e indeciso su cosa fare. Gli annunci roboanti sostituiscono le azioni – pensiamo a Putin, così come Khamenei, che vengono spesso presi in giro per la loro abitudine di lanciare minacce vaghe, di strizzare l’occhio all’ipocondria dell’opinione pubblica nemica, di fare tweet infuocati e tracciare linee rosse e ordinare lo stato di allerta delle forze nucleari… e poi non fare niente. È per questo che ci sembra che non succeda mai niente – però allo stesso tempo questo edging costante ci rende assuefatti e permette alle cose di accadere, solo che a quel punto non siamo più in grado di riconoscerle come eventi, perché ci sono state troppo a lungo anticipate come annunci. È qui la radice del famoso meme nothing ever happens – non è che le cose non succedano, è che non riusciamo a vederle se non succedono nei modi e nei tempi della spettacolarizzazione.