Nell’ultima settimana Hayat Tahrir al Sham, gruppo ribelle in passato legato ad al-Qaeda, ha avviato la più importante operazione militare vista in Siria da vari anni a questa parte, imponendo una svolta inaspettata ad un conflitto che ormai sembrava congelato – ma soprattutto dimenticato. Il fatto che la guerra civile siriana, un laboratorio politico che ha anticipato fenomeni che oggi vediamo ovunque, sia finita nel dimenticatoio ci racconta più di quanto non possa sembrare sulla nostra intera percezione della crisi della contemporaneità.
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Prima dello scorso weekend, nessuno si ricordava più della guerra civile siriana. Perché preoccuparsene ancora? Del resto la situazione militare era congelata più o meno dal 2020, quando le forze del governo di Assad avevano riconquistato alcune zone tra le province di Aleppo e Idlib, tra cui la città di Saraqib (strategicamente importante per la sua posizione sull’autostrada Damasco-Aleppo. All’epoca sembrava che il regime si preparasse ad attaccare direttamente anche Idlib, l’ultima roccaforte dei “ribelli siriani” – un termine ombrello che dieci anni fa indicava una coalizione di forze democratiche uscite dalle Primavere arabe e gruppi jihadisti, ma che ad oggi si riduce quasi solo ai secondi. Alla fine, però, è arrivato il COVID, non c’è stata alcuna offensiva su Idlib, e tutti si erano dimenticati della Siria. Almeno fino a venerdì scorso, quando i ribelli appartenenti alla coalizione di milizie guidata da Hayat Tahrir al Sham (HTS) – l’Organizzazione per la liberazione del Levante, che di fatto governa Idlib – non hanno lanciato un attacco di portata tale da sfondare la linea del fronte e conquistare Aleppo e tutto il nord-ovest della Siria in quattro giorni. Un’operazione militare lampo come quella che sperava di compiere Putin, insomma, solo che questa è riuscita. L’esercito assadista, senza più il sostegno della Russia (impegnata in Ucraina) e di Hezbollah (impegnato in Libano) è collassato; l’avanzata ribelle è poi proseguita verso sud e ieri è stata conquistata anche Hama, la quarta città più grande del paese.
La coscienza collettiva occidentale, oggi, è caratterizzata dal rimosso. Tutti i grandi eventi degli ultimi anni, alcuni dei quali ancora in corso, sono presto o tardi caduti nel dimenticatoio: dalla pandemia alla guerra in Ucraina alla crisi climatica. Sono rimozioni che servono a nasconderne il portato traumatico e il fatto che, anche dopo essere tecnicamente “finiti”, continuano ad avere conseguenze sulla nostra realtà. La pandemia, per esempio, è teoricamente finita, ma l’impatto che ha avuto – in termini non solo sanitari, ma anche psicologici – è ancora ben presente. La guerra in Ucraina è stata sempre più marginale nel ciclo delle notizie, ma è difficile trovare qualcuno oggi che non viva con la sensazione costante che il nostro mondo abbia una spada di Damocle che gli pende sulla testa, che viviamo alla fine di una belle époque. Ebbene, la guerra in Siria è stato il primo di questi rimossi. Anzi, il fatto stesso che tutti si fossero dimenticati della guerra in Siria – non solo del fatto che fosse ancora in corso ma della sua stessa esistenza come evento storico – deriva dal fatto che tutti i fenomeni morbosi della nostra epoca, tutte le sue questioni aperte, tutti gli aspetti che più ci terrorizzano, sono apparsi per la prima volta proprio in Siria. E la riconquista di Aleppo – al di là della situazione militare sul campo e di come si svilupperà la nuova fase della guerra civile iniziata negli ultimi giorni – arriva dunque come ritorno in superficie di questo rimosso.
Pensiamo a quali sono i problemi fondamentali della nostra epoca, quelli che non ci fanno dormire di notte. C’è il cambiamento climatico. C’è la “guerra mondiale a pezzi” come l’ha definita papa Francesco, ovvero la continua esplosione di conflitti locali nell’ambito di una nuova competizione inter-imperialista per i mercati. C’è la crisi del capitalismo liberale, che finisce da un lato in proteste di massa incapaci di trasformarsi in movimenti rivoluzionari, come quelle che abbiamo visto nell’ultimo decennio e dall’altro in autoritarismi nazional-populisti, perché – e questo è un altro punto della lista – c’è la polarizzazione della società e la radicalizzazione identitaria, quel fenomeno che Alex Hochuli ha chiamato “Carl Schmitt, in versione Disney”. Ci sono i danni che sta facendo internet alla nostra percezione della realtà – la parola dell’anno secondo l’Oxford Dictionary è stata “brainrot”, che vuol dire proprio questo. A prima vista sono tutte cose che ci sembrano c’entrare poco con la guerra civile siriana, un conflitto degli anni Dieci, che con i ritmi del mondo contemporaneo è come dire del secolo scorso. Eppure a guardare meglio si scopre che tutte queste questioni si sono manifestate per la prima volta sul terreno siriano ormai più di dieci anni fa. La guerra civile siriana è stata il calderone in cui tutto questo ha sobbollito per la prima volta, il laboratorio da cui sono uscite tutte quelle questioni.
È ormai cosa nota che il conflitto siriano sia stato scatenato anche dal cambiamento climatico. Prima dello scoppio delle proteste nel 2011, la Siria aveva attraversato tre anni di siccità nel 2007-2010, la peggiore di sempre, che aveva esasperato la pressione sulle risorse agricole e idriche e provocato una migrazione interna di un milione e mezzo di persone dalle aree agricole alle periferie delle grandi città. Ovviamente non si può trovare una causa unica ad un conflitto tanto complesso, il cambiamento climatico è semplicemente stato una delle prime tessere del domino. Quando l’ondata di scontento formulata in termini liberal-democratici (libertà, democrazia, dignità) cominciata in Tunisia nel dicembre 2010 è arrivata per contagio alla Siria, ha trovato terreno fertile anche tra quelle masse di migranti impoveriti che affollavano le periferie – alcune delle quali sarebbero diventate roccaforti delle milizie ribelli, come la Ghouta orientale fuori Damasco.
Qui ci ricolleghiamo al secondo incubo dei nostri tempi, le rivolte senza rivoluzione. La rivolta siriana è stata l’esempio più radicale di tale tendenza: come in tutti gli altri contesti delle cosiddette Primavere arabe, il movimento di protesta si è posto in modo insufficiente (o non ha proprio affrontato) le questioni del potere e dell’organizzazione, finendo per essere svuotato dall’interno. È lo stesso fenomeno che abbiamo visto anche in Occidente, per cui dopo il fallimento dell’ascesa di sinistra di dieci anni fa – i vari Occupy, Indignados, Podemos, Syriza –, la radicalizzazione identitaria ha finito per sostituire la radicalità politica. In Siria la forma che questo processo ha preso è stata quella del jihadismo: quando la rivolta siriana si è militarizzata le organizzazioni orizzontali dei ribelli liberali si sono dissolte, a conferma del fatto che il governo si fosse posto correttamente le questioni di cui sopra arrivando a concludere che la prova di forza fosse il modo migliore per assicurarsi la sopravvivenza. Questo vuoto è stato riempito dalla radicalizzazione identitaria. Come ha spiegato la storica Suzanne Schneider, il jihadismo è una risposta alla fine della Storia, una variante culturalmente specifica del nazional-populismo.
La Siria è stata il primo terreno in cui le contrapposizioni politiche hanno assunto status ontologico. Il motto assadista “Assad o bruciamo il paese”, così come l’ossessione dello Stato Islamico per la purezza, sono formulazioni della divisione amico-nemico schmittiana. La stessa inconciliabilità è uscita dai confini della Siria per andare a influenzare i dibattiti di chi osservava e commentava il conflitto. La guerra civile siriana è stato il primo tema che ha spaccato in due la sinistra internazionale tra la “sinistra fucsia” anti-Assad e i “rossobruni” pro-Assad (per usare i termini denigratori usati dai due schieramenti per riferirsi all’altro). Non era casuale, e non sarebbe stato che il primo venire alla luce di una contraddizione interna a un campo politico che infatti si sarebbe puntualmente ripresentata in altri contesti – ad esempio su Putin, il Donbas e l’invasione dell’Ucraina. Non ha riguardato solo la sinistra, però: sulla decisione tra “Assad e i jihadisti” si è polarizzata tutta la società, o meglio è emersa una polarizzazione già presente, che negli anni successivi si sarebbe ripresentata ogni volta che un tema riguardante la collettività si affermava come urgente nel dibattito pubblico: l’Europa (europeisti vs antieuropeisti), il populismo (populisti vs competenti), il Covid (no-vax vs sì-vax), l’Ucraina (pro-Putin vs pro-Ucraina), Gaza (pro-Palestina vs pro-Israele). Oggi vediamo come tutte queste polarizzazioni stiano cominciando a ricadere delimitando due campi contrapposti, riassumibili nella formula degli amici e dei nemici dell’Occidente secondo una logica che permette – e prevede necessariamente – una purga interna. Se questa ricaduta è stata possibile è per via della dimensione internazionale del conflitto siriano; non solo una guerra civile, ma un campo di battaglia in cui varie forze si sono affrontate per imporre la propria supremazia. È stato il primo luogo in cui è andato in scena militarmente quello scontro inter-imperialista che oggi vediamo ovunque e di fronte al quale le nostre società ci chiedono di compattare i ranghi. La Siria sta con l’Iran, con Hezbollah, con Putin, con la Cina e coi palestinesi, quindi i ribelli stanno con Israele, con l’Ucraina, con gli Stati Uniti e con l’Occidente. È una narrazione propagandistica, ovviamente, ma la guerra civile siriana è stato il primo terreno su cui è stata sperimentata, perché in Siria effettivamente c’erano sul campo tutti questi attori, dalle milizie filo-iraniane agli uiguri oppressi dalla Cina che combattevano contro Assad.
Da ultimo, la Siria è stata anche il primo conflitto che ha preso la forma che hanno oggi i conflitti. Quando guardiamo le immagini delle grandi proteste in Georgia, o le immagini dei combattimenti in Ucraina registrate dalle GoPro dei soldati, o le foto dei militari israeliani che prendono in giro i palestinesi uccisi, stiamo vedendo reiterazioni di cose che abbiamo già visto in Siria. È in Siria che sono nati i selfie di guerra, i selfie dei soldati; è in Siria che abbiamo visto gli utenti dei social fare ironia sulla gente che moriva di fame durante un assedio (le foto di cibo postate su Facebook con hashtag che facevano riferimento all’assedio di Madaya, 2015-2017). La prima battaglia di Aleppo (2012-2016) è stata la prima battaglia della storia a diventare una specie di spettacolo, con account che ne facevano la cronaca minuto per minuto, che creavano mappe dettagliatissime di chi controllava cosa, e civili di Aleppo come Bana Alabed che twittavano raccontando la loro vita sotto assedio come in una sorta di reality. È stato con la guerra in Siria che le comunità online dedicate a una guerra (per esempio r/SyrianCivilWar) sono diventate indistinguibili da quelle dedicate a Harry Potter. È stato con la guerra in Siria che è nata l’OSINT. Sono tutti sviluppi che abbiamo poi visto anche in Ucraina e che vediamo oggi in tutti i conflitti (o perlomeno in tutti i conflitti in cui le condizioni materiali lo consentono) ma che sono cominciati lì.
La guerra civile siriana non è stata un semplice evento ma qualcosa di più. In The New Order, una mod per il videogioco strategico Hearts of Iron 4 ambientata in un mondo in cui i nazisti hanno vinto la seconda guerra mondiale, ci sono due tipi di eventi: gli eventi, che appaiono sullo schermo come finestre pop-up che ti raccontano che è successa una certa cosa, e i supereventi, che appaiono con finestre pop-up più grandi, con tanto di musica di sottofondo, e che al loro apparire mettono in pausa la partita. I pop-up dei normali eventi impongono al giocatore (che interpreta un paese) una scelta, mentre i pop-up dei supereventi lo mettono di fronte a qualcosa che è successo e che cambia il contesto in cui deve fare le sue scelte. Possiamo paragonare la guerra in Siria a un superevento, un fatto di proporzioni così grandi da cambiare tutto il mondo in cui viviamo, e allo stesso tempo un evento nei confronti del quale non abbiamo alcuna agency, che a noi non chiede nulla se non di adeguarci di conseguenza a quanto accaduto.
Dopo aver riconquistato Aleppo pochi giorni fa, i ribelli siriani hanno cominciato a rilasciare una serie di dichiarazioni volte a tranquillizzare la popolazione: tornate alla normalità, state tranquilli. Inoltre hanno cominciato ad affermare la loro volontà di proteggere le minoranze, di valorizzare il pluralismo della società siriana. Si sono rivolti ai curdi e ai cristiani, ad esempio, per dirgli non vi preoccupate, anche voi fate parte della Siria che vogliamo. Hanno cominciato ad adottare, insomma, una retorica che sembra simile a quella della rivoluzione del 2011-2012. Sicuramente non si tratta di parole sincere, come non lo erano quelle dei talebani quando promettevano di istituire un “governo inclusivo” all’indomani della presa di Kabul. Sicuramente i vertici di HTS – un gruppo armato che nemmeno 10 anni fa era affiliato ad al-Qaeda – non ci credono e appena possibile si rimangeranno tali promesse. Ma il fatto stesso che oggi le si faccia è indicativo che una lezione è stata appresa: così come il movimento di protesta del 2011 non poteva avere successo militarmente senza affidarsi all’aiuto delle truppe jihadiste, l’unica forza combattente in grado di tenere testa all’esercito assadista, quelle stesse truppe jihadiste, un decennio più tardi, hanno capito di non poter aver successo politicamente senza affidarsi all’aiuto ideologico di quello che resta del movimento di protesta del 2011. C’è voluto un decennio ma la dialettica della storia ha fatto il suo lavoro. Si tratta di un presagio di cui tenere conto, qui nell’Occidente che cerca ancora di riprendere sonno dopo il brusco risveglio politico del decennio scorso.