Blog

  • Home

Dopo decenni di tabù, le armi nucleari sono ritornate ad essere sempre di più un tema di attualità politica. Nel nuovo caos globale, sempre più stati intendono dotarsene e chi che già ne ha non vuole più sottostare ai trattati che ne controllano la proliferazione – e poco importa se l’ultimo premio Nobel è stato assegnato proprio ad una associazione giapponese di sopravvissuti. Alessandro Leonardi – analista politico esperto di crisi della modernità – sul ritorno della minaccia atomica. 

***

Nessuno vuole la guerra nucleare. Neppure i grotteschi leader americani e sovietici dell’iconico film di Stanley Kubrick Il dottor Stranamore. Eppure, complici la paranoia di un generale americano, le caotiche procedure militari, l’automatico ordigno “Fine di Mondo” e l’infinita stupidità umana, la Bomba esploderà comunque, dando il via ad una reazione a catena accompagnata dalle gentili note del brano “We’ll Meet Again” della cantante britannica Vera Lynn. Uscita nel 1964, la pellicola divenne in breve tempo l’irriverente, feroce e satirico ritratto della follia bellica moderna con la quale conviviamo ormai dal lontano 1945, anno di nascita della spada di Damocle nucleare. Da allora l’Homo Sapiens ha ininterrottamente giocato a questa incredibile “roulette russa”, salvo concedersi un momento di apparente tranquillità negli anni ’90, quando tutto sembrava sotto controllo; quella piccola parentesi felice è però ormai conclusa e il pericolo del cataclisma è tornato a piena potenza. Ma questa volta le logiche della spada sono cambiate e i vecchi schemi della Guerra Fredda non funzionano più.

Durante la notte del 24 febbraio 2022 il presidente russo Vladimir Putin ha concluso il proprio discorso sull’avviamento dell’operazione militare speciale in Ucraina con una serie di gelide parole che sembravano ormai non avere nulla a che fare con il lessico della politica internazionale contemporanea, minacciando « chiunque tenti di interferire con noi, e ancor di più di creare minacce per il nostro Paese, per il nostro popolo » di essere disposto a mettere in atto una risposta immediata con conseguenze « che non avete mai sperimentato nella vostra storia ». Un cupo ammonimento, inevitabilmente interpretato dalle forze occidentali come una pesante allusione al potenziale ricorso russo al proprio arsenale nucleare. 

Da quel momento il pericolo della guerra atomica è tornato al centro dell’attenzione pubblica, condito con dell’inutile sensazionalismo mediatico, fra un crescendo di minacce sempre più esplicite di leader anche di primo piano – si pensi alle parole del vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo Dmitrij Medvedev – e una paura strisciante che si diffonde sempre di più nei cittadini europei. Ma la progressiva disgregazione della cornice di sicurezza ha origini lontane, riconducibile addirittura agli inizi degli anni 2000, e ha visto la caduta di praticamente tutti i trattati che controllavano la diffusione delle armi nucleari. L’architettura diplomatica che era stata costruita faticosamente ha ceduto il passo al riemergere delle tensioni fra le varie potenze, aggravato dal cambiamento dei rapporti di forza a livello internazionale e dall’ascesa di nuovi attori regionali sempre più apertamente desiderosi di accedere all’arma suprema. 

Di fronte a questi rapidi cambiamenti si sono moltiplicati gli allarmi degli addetti ai lavori, con il simbolico orologio dell’apocalisse spostato sempre più verso la “mezzanotte”, continuando a battere i record precedenti ma senza che questo implichi alcun risultato tangibile. Quello che era considerato il tabù supremo, anche solo per il principio della “mutual assured destruction” (la MAD, ovvero l’idea per cui una guerra nucleare comporterebbe la fine di tutte le parti coinvolte nel conflitto), ha iniziato a incrinarsi nelle alte sfere del potere, tanto che alcuni influenti politologi russi hanno tranquillamente e pubblicamente discusso del possibile impiego limitato delle testate nucleari tattiche, mentre i governi sia delle tre maggiori potenze mondiali (USA, Cina, Russia), sia di altri paesi hanno avviato una nuova corsa alle armi su scala globale. Sullo sfondo, piccoli Stati incapaci di inserirsi in questa competizione come la Serbia si vedono costretti ad aggiornare le proprie politiche emergenziali in caso di guerra atomica, riconoscendo di fatto la propria impotenza in questo nuovo scenario . 

Allo stato attuale sono ben nove gli stati dotati di un proprio arsenale nucleare, mentre altri sei (Italia, Belgio, Germania, Olanda, Turchia, Bielorussia) ospitano delle testate atomiche in “condivisione” con i propri alleati. Nel prossimo futuro il numero potrebbe aumentare proprio a causa dei sempre più frequenti conflitti in corso, che inevitabilmente spingono a ricercare un peso maggiore sullo scacchiere internazionale e soprattutto la “polizza assicurativa” per il proprio sistema di potere. Le immagini del leader libico Muʿammar Gheddafi seviziato dai ribelli, così come in precedenza l’impiccagione di Saddam Hussein e tutti gli altri episodi di regime change avvenuti negli ultimi decenni, hanno suggerito una maligna lezione ai rivali dell’Occidente, che sembrerebbe essere stata ulteriormente confermata anche dal diverso percorso intrapreso dal regime nord-coreano nel proprio conflitto contro le ingerenze straniere. Più la situazione globale diventa instabile e il “rules-based order” viene disintegrato dalle azioni sul campo degli stessi attori che pretendono esserne i promotori, più la corsa all’arma atomica diventerà una tremenda necessità. E in questo senso non stupisce che ad un anno di crescente escalation bellica in Medio Oriente l’Iran, temendo la fine del proprio regime per mano israeliana-statunitense, si sia mostrato interessato ad accelerare drasticamente i suoi piani per arrivare alla bomba nucleare e assicurarsi così un riequilibrio dei rapporti di forza a livello regionale. Un cambiamento che, a sua volta, scatenerebbe quasi sicuramente un pericoloso effetto domino nella regione, con l’Arabia Saudita che si sentirebbe a sua volta costretta a prendere provvedimenti e farsi trovare pronta nel bilanciare l’atomica iraniana. 

Se cresce il numero dei Paesi dotati di armi nucleari a causa della destabilizzazione planetaria, aumentano inevitabilmente le variabili impazzite: si moltiplica il rischio di un conflitto atomico localizzato, ma anche di una guerra civile combattuta in un paese dotato di tali armi o ancora il coinvolgimento degli impianti nucleari negli scontri bellici – come dopotutto è già successo in Ucraina. Inoltre la presenza di troppi attori sullo scacchiere atomico renderebbe ancora più difficile di quanto già non sia non solo siglare degli accordi per ridurre gli armamenti, ma anche solo l’avviamento di un tavolo di negoziati specialmente se si considera che già adesso se ne tengono fuori varie potenze nucleari e che il clima internazionale contemporaneo ricorda sempre di più il periodo antecedente alla Prima guerra mondiale. Ma ancora prima delle tensioni in corso, delle mosse disperate, o del leader folle, vi è un pericolo più insidioso e sottovalutato: la catena di errori.

In piena Guerra Fredda le simulazioni dedicate ai conflitti atomici erano un affare ricorrente all’interno degli apparati militari, con analisti che soppesavano il numero delle vittime, le possibilità di sopravvivenza delle catene di comando e la convenienza di un “first strike”. Ma la guerra termonucleare simulata conduceva sempre alla stessa sconfortante conclusione: l’annichilimento di gran parte della civiltà moderna. La presenza di centinaia, migliaia di testate pronte al lancio non lasciava alcun margine a “conflitti nucleari limitati” e infatti fu proprio in ragione della MAD che i vari apparati politici si videro costretti a soppesare con molta prudenza l’uso di tali armi, strutturando dei sistemi decisionali in grado di prevenire le folli azioni di un singolo individuo. Era un modo anche per impedire che mosse politiche come la “teoria del pazzo” di Richard Nixon, la paranoia di certe leadership sovietiche o le azioni segrete di alcuni generali americani, potessero portare a catastrofiche conseguenze.

Ma per quanti sistemi di sicurezza si possano implementare, rimane sempre sul tavolo la possibilità dell’errore, una prospettiva imprevedibile e per questo ancora più spaventosa ma comunque sufficientemente concreta da non poter essere ignorata affrontando un discorso di questo tipo. Più volte si è arrivati vicini al lancio dei missili a causa di falsi allarmi, percezioni sbagliate o procedure eseguite in modo errato. Il caso più inquietante e pericoloso rimane l’episodio del sottomarino sovietico B-59, durante la crisi dei missili di Cuba nel 1962, dove l’ufficiale Vasili Arkhipov impedì il lancio di un siluro nucleare nel pieno di un dibattito teso e confuso sul fondo del mare. Insomma, si tratta di una possibilità più che concreta che se in passato è stata evitata anche grazie al ricordo degli orrori di Hiroshima e Nagasaki, a ottant’anni dagli unici due bombardamenti atomici della storia sembra sempre più remota. Anzi la minaccia nucleare è percepita come tanto remota che, come ha detto l’economista Branko Milanović, ormai viene usata con leggerezza tale da diventare un sostitutivo dell’invio di truppe sul campo.

Paure, paranoie, tensioni estreme e tempi ristretti non si conciliano felicemente con i ragionamenti razionali che ci si aspetta precedano la decisione di avviare uno scontro prolungato e catastrofico fra più potenze. Il recente saggio della giornalista Annie Jacobsen Nuclear War: A Scenario ha evidenziato quanto siano troppo rapide – questione di pochi minuti in certi casi – e discrezionali le procedure per valutare con attenzione la situazione sul campo. Con l’avvento delle armi ipersoniche, delle IA in campo militare e altre innovazioni belliche, la nuove corsa nucleare si inserisce in un contesto globale flagellato da multiple crisi sistemiche che fanno tremare alla base il nostro stesso modello di sviluppo, in mezzo a rapidi mutamenti tecnologici, economici e industriali. Una combinazione tossica decisamente più pericolosa e instabile, dove per il momento sono state evitate ulteriori escalation per puro miracolo: il poco discusso incidente del Mar Nero avvenuto nel 2022 – quando un pilota di caccia russo ha lanciato contro un aereo britannico due missili a causa di un fraintendimento degli ordini ricevuti – ci ricorda infatti che la catena di errori è sempre in agguato.

Una guerra nucleare limitata, in cui siano impiegate “solo” cento bombe atomiche, potrebbe portare alla fame oltre 2 miliardi di persone. Una guerra termonucleare fra Stati Uniti e Russia condannerebbe a morte gran parte dell’umanità e senza dubbio porrebbe fine alla modernità così come la conosciamo. Sono scenari dibattuti da decenni, invano. La piccola parentesi di dialogo degli anni ‘90 è stata definitivamente sprecata ed oramai siamo a pieno titolo entrati nel tempo dei “sonnambuli”, in cui leader incapaci di misurare la gravità delle proprie azioni procedono nella propria competizione su scala sempre più larga all’interno di un Sistema planetario di 8,2 miliardi di persone. I tentativi per estendere a tutti gli stati del mondo il “Trattato per la proibizione delle armi nucleari” (TPWN) sono al momento inutili e nessuna potenza sembra essere in alcun modo interessata a rinunciare all’arma suprema. Anche solo la paranoia che un avversario la possa sviluppare in segreto è una ragione percepita come ben più che sufficiente per non demordere in questo senso. Una volta che il genio è uscito dalla bottiglia non è più possibile ricacciarcelo dentro, grazie al know-how acquisito all’interno di una civiltà tecnologica come la nostra. 

Se da una parte le armi nucleari continueranno ad accompagnarci nel nostro cammino, dall’altra andranno implementati al più presto degli stratagemmi realistici per diminuirne al minimo le possibilità del loro uso reale. Sicuramente un nuovo trattato trilaterale fra USA, Cina e Russia, simile al “New Strategic Arms Reduction Treaty (New START)”, aiuterebbe a ripristinare un quadro più chiaro e meno nebuloso. Ma neanche questo sarebbe affatto sufficiente. Ulteriori misure dovrebbero includere la netta diminuzione degli arsenali, al di sotto delle cento testate per nazione, con un incremento delle misure di sicurezza, dei tempi decisionali, la modifica delle procedure operative e la rimozione dell’opzione militare del “primo colpo”. Allo stesso tempo, diventa sempre più urgente e necessaria la creazione di una nuova architettura diplomatica internazionale che sia strutturata di modo da riconoscere i cambiamenti in atto fra le varie regioni del pianeta – primo fra tutti, la fine del mondo unipolare. “Vaste programme” affermerebbe il leader francese De Gaulle, ma senza queste soluzioni prima o poi l’arma nucleare verrà usata di nuovo e proprio nel XXI secolo. 


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *