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Un tempo voci incontrastate della ragione nel dibattito pubblico, oggi ridotti a prediche morali sempre meno efficaci. La crisi degli intellettuali progressisti è uno dei fenomeni più rilevanti dell’inizio del XXI secolo. Raffaele Alberto Ventura, saggista e autore di La regola del gioco (Einaudi, 2023), identifica la causa di tutto ciò: la contraddizione tra i doveri del loro ruolo e quello che devono fare per arrivarci.

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Se questo fosse un meme, e cominciasse con una lista di cose che fanno male, dopo i due punti troveremmo: gli spigoli dei mobili, le lame affilate, le botte in testa e il fatto che il progressismo, in quanto ideologia della modernizzazione, è anche l’ideologia organica della classe intellettuale. L’ibrido esperto-attivista ne è la forma più paradigmatica. Ma questo non è un meme e quindi sono costretto ad argomentare. 

La classe intellettuale definisce, in ogni campo, lo spettro del necessario, ovvero ciò che deve essere in base a leggi naturali o morali. In questo modo, persegue la crescente avocazione a sé delle funzioni sociali: il diritto prende il posto della consuetudine, la sanità il posto della cura, la pianificazione il posto dell’autonomia, l’ingegneria linguistica il posto della lingua, la gestione del rischio il posto delle decisioni politiche. Questo processo accentua il dominio del lavoro morto, cristallizzato nel sapere tecnico, sul lavoro vivo. 

Tutte le alternative vengono attivamente cancellate e, generando sempre nuovi rischi come effetti collaterali delle sue soluzioni, la modernizzazione riproduce continuamente le condizioni della propria necessità oggettiva. La funzione dell’intellettuale non è dunque solo di produrre dei meme. Il suo primo compito, da preposto alla diffusione dell’ideologia, è promuovere la propria necessità, dimostrare che è tale ed eventualmente renderla desiderabile.

In fondo è sempre questione di colonizzatori e colonizzati. Il liberalismo progressista – lo sanno tutti, tranne noi – è il soft power dell’imperialismo occidentale. Secondo la sua scala di valori, le società moderne sono sistematicamente superiori alle società arcaiche, e gli individui emancipati e “decostruiti” sono superiori a quelli vincolati alle loro tradizioni premoderne (nazione, famiglia, comunità, religione). Ma le forme alternative sono spesso le più adatte in regime di scarsità o di marginalità e proprio per questo resistono, indifferenti alla corrente della Storia. 

Questa contrapposizione determina un conflitto oggettivo che talvolta sfocia in violenza da ambo le parti, sia nella forma populista/terrorista degli egemonizzati (nazionalismo, radicalismo religioso, cospirazionismo) che in quella repressiva degli egemonizzatori. È la ben nota dialettica universalismo astratto-particolarismo reattivo (ne scriveva Stefano Azzarà in una Tempolinea precedente). 

Il secondo compito dell’intellettuale, di fronte a questo conflitto, è occultare il costo sempre più alto della modernizzazione – fino al suo costo umano, nei teatri di guerra (Iraq, Afghanistan, Gaza, ecc.) – a fronte dei suoi benefici decrescenti.

La dialettica tra colonizzatori e colonizzati è vera tanto verso fuori, dal centro alla periferia del mondo, quanto verso dentro, dal centro alla periferia della società occidentale.

Non stupisce che, nelle guerre culturali, la retorica conservatrice “populista” abbia assunto dei tratti decoloniali. In quanto implementazione di soluzioni massimamente “corrette” in base a un criterio di stabilità e di efficienza, la modernizzazione si realizza attraverso una continua neutralizzazione e depoliticizzazione, universalizzando come assoluti dei progetti di “idraulica sociale”. È per questo che una provocazione come lo schwa, percepita – malgrado la posizione periferica di chi lo promuove – come una riforma “calata dall’alto”, suscita tanta aggressività.

La modernizzazione genera inoltre delle rendite economiche e simboliche attraverso un trasferimento di risorse dalla periferia al centro del campo sociale. Queste rendite sono inegualmente distribuite, e il terzo compito dell’intellettuale è appunto legittimare questo scambio ineguale per consolidare il privilegio della propria classe. 

L’aumento del numero di pretendenti – intercambiabili in quanto portatori del medesimo tipo di capitale culturale – porta nell’indistinzione a una concorrenza sempre più agguerrita per l’accesso alle posizioni. Al fine della conquista e del consolidamento del proprio posizionamento nella gerarchia sociale e nella catena del valore, l’intellettuale può ricorrere alla carta dell’attivismo come investimento simbolico che incrementa il suo capitale reputazionale: i social network sono l’ecosistema ideale dell’ibrido esperto-attivista che interpreta oggi questo ruolo. A sua disposizione ha una vasta gamma di strumenti, dalle card Instagram color pastello ai reel e le stories. Questo è tanto più vero nel contesto italiano in cui la nuova generazione d’intellettuali è caratterizzata da una strutturale precarietà e deve battersi nella giungla dell’attenzione.

Ma l’ibrido esperto-attivista è un composto chimico instabile. Le esigenze di posizionamento individuale sono infatti in conflitto con le funzioni primarie di produzione dell’ideologia. L’intellettuale progressista “impegnato”, alla ricerca di una duplice legittimazione dall’interno e dall’esterno del campo, cioè dall’alto e dal basso della classe intellettuale, è il prodotto di questa contraddizione: si propone sia come “esperto” che come “attivista”, oscillando acrobaticamente tra le posizioni. In quanto composto instabile, può in ogni momento disgregarsi al termine di eclatanti crisi reputazionali (volgarmente dette “shitstorm”).

In effetti la tendenza alla neutralizzazione e depoliticizzazione che caratterizza il processo di modernizzazione viene continuamente contraddetta dalla pseudo-politicizzazione spettacolare che serve ad accumulare capitale simbolico per legittimare la propria posizione e scavalcare (o boostare) i processi di selezione “meritocratica”. Il tacito patto di legittimazione che fonda la reputazione dell’intellettuale pubblico, metà attivista e metà esperto, alimenta però una domanda crescente di posizionamento politico, presto insostenibile dal momento che entra in conflitto con la logica di depoliticizzazione. Di fronte alla società e al suo gruppo di riferimento, l’intellettuale finisce per caricarsi del peso di aspettative politiche che non può soddisfare. Per soddisfarle, in effetti, dovrebbe denunciare la violenza stessa del processo di modernizzazione e delle sue propaggini coloniali e quindi anche il proprio ruolo d’intellettuale.

Non c’è da stupirsi se oggi il campo intellettuale italiano – perlomeno nel suo segmento “semi-integrato”, composto da precari con mezzo piede nell’università o nei grandi media – è lacerato. Da una parte la massa sempre più ampia di outsider che fanno pressione all’ingresso adotta tattiche sempre più aggressive di delegittimazione dei potenziali concorrenti, non tanto perché sperano coscientemente di prenderne il posto, ma perché nessun rapporto di potere li trattiene dal farlo. Essi adottano tutti i peggiori vezzi dell’estremismo, inteso come “malattia infantile” della classe intellettuale. D’altra parte i semi-integrati fanno gruppo per difendersi secondo una logica corporativa, senza esitare ad applicare pesi e misure diversi rispetto a quelli solitamente usati per gli avversari. Essi adottano tutti i peggiori vezzi del centrismo – i distinguo, i piantini, la neutralità, gli argomenti ab auctoritate… – inteso come “malattia senile” della classe intellettuale.

I primi e i secondi sono esattamente gli stessi, presi in due momenti del loro sviluppo. Questi due cerchi concentrici circoscrivono il vero centro del campo intellettuale, composto dai notabili del sapere stabilito: baroni e gatekeeper. Fuori da questi tre cerchi concentrici, alla periferia del campo, stanno le falangi dell’anti-intellettualismo, nella paziente attesa che il karma della circolazione delle élite annunci il loro turno. 

Le continue crisi reputazionali degli intellettuali attivisti ci dicono forse qualcosa sullo stato di salute del sistema. Esaurita la storia del progresso come promessa di un futuro migliore, la modernizzazione viene ormai legittimata sulla sola base del “male minore”, ovvero come mitigazione del rischio e gestione di crisi.

Nessuna società complessa è stata mai capace di operare senza deleghe a una classe intellettuale. D’altra parte nessuna società complessa è mai stata in piedi senza una politica imperiale. In fondo tutto quello che si chiede all’ideologia è di riuscire a mascherare la verità di questa violenza. Quando nessuno crede più a questo mascheramento, nel fragore delle tempeste di merda, è forse un segno che l’impero sta già crollando.


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