Viviamo in un’epoca di diffusa nostalgia, in cui i politici ricorrono al cosplay delle glorie passate per coprire con i ricordi fugaci e allucinati di tempi migliori un capitalismo sempre più deprimente. In molti casi, questo approccio è figlio delle condizioni materiali, o meglio del loro deteriorarsi: le persone sono consce della propria insoddisfazione ma non sono in grado di individuare una via d’uscita, e quindi pensano che deve esserci stato un qualche momento in cui le cose andavano bene. Dopotutto, in un mondo che non ha più nulla da offrire, perché mai non dovremmo venerare un passato irraggiungibile?
Eppure esiste un paese in cui questa nostalgia non ha alcuna base materiale, in cui alcune cose (non tutte) sono migliorate in modi facilmente misurabili, ma in cui persiste la narrazione di un’epoca d’oro pre-2008 distrutta da mostri populisti, nazionalisti, radicali e irrazionali – la Cina. Per quanto gli anni di Xi Jinping, infatti, siano stati un tentativo di aggiustare il Partito-stato mediante un rilancio della politica che ha ormai raggiunto il proprio limite, la Cina rimane un paese generalmente efficiente e funzionale, che si può vedere come un sistema socialdemocratico di successo. Ma per chi venera il passato questo conta poco. Ci si concentra invece su ciò che in questi anni sarebbe andato perso – una “libertà” concepita in modo astratto.
Nel 1992 gli studiosi Kenneth Lieberthal e Michel Oksenberg hanno coniato un’espressione per descrivere l’evoluzione del sistema politico cinese all’inizio dell’epoca delle riforme: “autoritarismo frammentato”. Un sistema cioè in cui “l’autorità, al di sotto del vertice del sistema politico, è disarticolata” e dove “l’incoraggiamento degli organi statali a diventare sempre più autosufficienti attraverso l’imprenditorialità burocratica ha rafforzato la tendenza delle unità burocratiche a lavorare per promuovere e proteggere i propri interessi nel processo decisionale”. In altre parole, pur rimanendo nominalmente governata da uno stato unitario e monopartitico, la Cina creata attraverso il decentramento politico ed economico del processo di riforma e apertura era in realtà fortemente frammentata. Le politiche non erano decise dall’azione collettiva del Partito, ma da negoziati e compromessi tra i gruppi all’interno del Partito-stato.
La peculiarità cinese non era questa contrattazione in sé, ma il fatto che “così tanti individui e organizzazioni devono concordare o acconsentire prima di intraprendere qualsiasi azione”. Dai militari, alle burocrazie regionali, alle imprese statali, i vari gruppi di interesse nati nell’epoca delle riforme traevano tutti profitto dall’esplosione dell’economia di mercato e hanno quindi dovuto trovare un modo per funzionare insieme; ne è risultata una specie di lotta perenne per la salvaguardia della propria posizione. Questo è stato il sistema con cui la Cina è stata governata dal 1978 al 2012 – ma tendenze di questo tipo esistevano già sotto Mao, e sarebbero continuate anche se il Partito comunista non fosse stato al potere.
Nel loro modello, Lieberthal e Oksenberg definiscono l’autoritarismo frammentato come un sintomo del fatto che il sistema cinese è “in transizione da un modello gerarchico tradizionale verso uno più moderno e orientato al mercato”. Se nel primo “le attività sono guidate principalmente da relazioni verticali all’interno dell’apparato burocratico”, nel secondo “una gamma più ampia di attività è guidata da relazioni modellate esclusivamente soggette alle regole del mercato” – un’analisi tipicamente del liberalismo degli anni Novanta, ma ancora oggi vera. Senza la presenza di un sistema politico istituzionalizzato invece che un mondo ombra di accordi e contrattazioni sotto una superficie nominalmente socialista, il capitalismo cinese non sarebbe mai andato oltre la semplice manifattura – un modello caotico che ha generato tanto continue previsioni catastrofiche quanto forme perverse di attrazione.
Era l’epoca del mito della tecnocrazia cinese e in tutte le interpretazioni della prassi politica cinese il decentramento – un mezzo improvvisato dai funzionari favorevoli al mercato per attuare le loro politiche, che non avevano sostegno istituzionale né popolare – era visto come desiderabile per la sua flessibilità; proprio ciò che rendeva il sistema lacerato e contraddittorio era visto come la sua più grande forza. Tale visione offriva qualcosa a tutti: nella sua instabilità permetteva di sognare una Cina liberale esistente ai margini e che un giorno sarebbe emersa dalle rovine, e nella sua rigida adesione al dominio delle zone pro-mercato prometteva ai conservatori un ideale tatcheriano di stato forte e libero mercato; ai post-fascisti e agli accelerazionisti, con i suoi colori e il suo caos prometteva l’ideale dannunziano della musica come principio fondamentale dello stato e alla sinistra le bandiere rosse, al retorica comunista e la falce e martello forniva un’ultima speranza in un mondo senza più l’URSS. Poteva fare tutto ciò per la sua stessa incoerenza, perché era fatta di mezze verità e contraddizioni; ma anche perché nella sua decentralizzazione aveva spaccato il progetto centralizzatore della Repubblica popolare cinese in – come ha scritto Quinn Slobodian ne Il capitalismo della frammentazione – “un paese molte zone”. L’autoritarismo frammentato cinese esisteva ed esiste come un patchwork di diverse entità politiche: lo Xinjiang, un ammasso di territori etnicamente diversi amministrati come un petrostato coloniale militarizzato; il Gansu, altrettanto ricco di petrolio ma etnicamente omogeneo; l’Hunan, povero ma pieno di storia rivoluzionaria; la scintillante città stato finanziaria di Shanghai; lo sprawl manifatturiero pro-mercato del Guangdong; la follia cyberpunk del settore tecnologico ipercapitalista di Shenzhen; la Chongqing “neomaoista” di Bo Xilai; l’atmosfera imperiale e politicizzata di Pechino.
Insomma, chiunque andasse in Cina poteva trovare da sé ciò che desiderava, semplicemente guardando alle zone che gli piacevano e ignorando il resto. E questo è stato esattamente ciò che ci siamo abituati a fare: siamo arrivati a vedere l’enorme diversità dell’esperienza cinese come il suo punto di forza. Ci siamo entusiasmati, nel bene e nel male, per tutto ciò che accadeva in Cina – tutto contemporaneamente, insieme e separatamente. Con il senno di poi, avremmo dovuto imparare da com’era andata a finire l’ultima volta.
Tutto ciò ha infatti un precedente storico: e se in passato ho già paragonato Mao a Martin Lutero, allora possiamo anche paragonare il patchwork dell’autoritarismo frammentato a quello della Germania medievale, al Sacro Romano Impero. Struttura feudale e imperiale, il Sacro Romano Impero è stato per secoli al centro dell’Europa, parallelamente ma anche in opposizione agli altri stati in procinto di evolversi dalla forma feudale a quella moderna, ritrovandosi intrappolato nel proprio obiettivo di porsi come successore di Roma e in una narrazione che lo considerò per secoli come qualcosa di fuori dal tempo. Ciò era in gran parte dovuto al suo strano modello politico, in cui un sovrano nominalmente autoritario agiva perlopiù come arbitro su una massa di territori di varia forma, dimensione e coesione, legati solo da vincoli giuridici all’istituzione dell’Impero. Mentre all’inizio dell’età moderna il resto dell’Europa si trasformava nella forma variegata ma coerente degli stati-nazione assolutistici, la struttura pluralistica dell’Impero sembrava nel migliore dei casi un goffo anacronismo, nel peggiore un terribile insulto ai popoli germanici che ne ritardava il diritto divino allo sviluppo nazionale malgrado la continua erosione del potere centrale.
Tuttavia, nell’era della globalizzazione e della politica post-nazionale, è diventata di moda una certa rivalutazione del Sacro Romano Impero, visto come un precursore dell’Unione Europea o un modello non di frammentazione di un potere originariamente centralizzato ma di un graduale rafforzamento della dimensione locale. Tale idea è stata fatta propria da una certa corrente di pensiero della destra reazionaria e fondamentalista di mercato, esemplificata dal lavoro del blogger americano Curtis Yarvin, secondo cui “man mano che i governi di merda che abbiamo ereditato dalla storia vengono distrutti, li si dovrebbe sostituire con una ragnatela globale di decine, persino centinaia o migliaia di mini-paesi sovrani e indipendenti, ciascuno governato dalla propria società per azioni, senza tener conto delle opinioni dei residenti. Se ai residenti non piace il loro governo, possono e devono trasferirsi”. Chiaramente, questo modello è ben più radicalmente “libero” sia della Cina dell’era delle riforme, dominata dal Partito comunista, sia del Sacro Romano Impero, pur sempre retto dall’autorità imperiale. È allora nei suoi contorni sfumati che possiamo intravedere qualcosa del più ampio impulso fondamentalista di mercato che ha alimentato la feticizzazione della Cina degli anni Duemila.
Il punto chiave del patchwork di Yarvin, proprio come nel caso della Cina frammentata e del Sacro Romano Impero, non era tanto il decentramento in sé quanto la sua mercatizzazione. Yarvin parla dei suoi microstati immaginari come di società per azioni piuttosto che Stati tradizionali, in cui i residenti sono secondari se non nella misura in cui esercitano il loro potere economico. E dopotutto anche nel Sacro Romano Impero le entità locali facevano riferimento alle proprie “libertà storiche” per costruire domini assolutistici i cui cittadini servivano solo come risorse economiche, anticipando il capitalismo sfrenato delle odierne zone economiche speciali. Il Sacro Romano Impero, secondo questa prospettiva revisionista, era pluralista e flessibile, la sua sovranità difficile da definire, i suoi meccanismi opachi e in continua evoluzione – elementi dapprima rimproverati e oggi lodati, calpestati dalla follia del nazionalismo e in generale dello stato-nazione.
A conti fatti la follia di questa prospettiva dovrebbe apparire ovvia e resta da sottolinearne il pilastro nella sinergia tra l’autorità imperiale e quelle locali. Dopo la guerra dei Trent’anni, l’Impero divenne un’arena per una serie di monarchi assoluti interessati a trovare una fonte di legittimità condivisa e uno spazio comune con sbocchi economici e militari. Né i governanti asburgici né i piccoli principi avevano molto interesse a trasformarlo in un’entità politica “vera e propria”, come stava accadendo contemporaneamente in altri stati vicini, e così rimase fino a quando non fu più utile, venendo sostituito da entità più compatte, in un processo di ricentralizzazione che alla fine avrebbe portato alla Germania. Insomma, al di là delle narrazioni, il Sacro Romano Impero è morto a causa delle sue contraddizioni interne: il patchwork non era, come sostenuto da Yarvin, un modello replicabile, ma il prodotto di un certo momento storico e delle circostanze che lo avevano determinato. Dell’impero non sarebbe rimasto che il fantasma, fino ad arrivare ai sogni dei fondamentalisti del mercato contemporanei aspiranti ad un sistema in cui l’individuo esiste e sceglie non in quanto cittadino ma in quanto consumatore. Questa era la libertà dei principi tedeschi, era la libertà del Sacro Romano Impero, ed è oggi la libertà dell’expat che si muove da una zona all’altra, da un paese all’altro, come un ipotetico borghese medievale poteva spostarsi fra i territori della Lega Anseatica. Questa era, in sostanza, la libertà della Cina pre-Xi Jinping.
Che ne è stato? Nel complesso la “Nuova era” cinese non ha completamente invertito l’autoritarismo frammentato, coerentemente con la natura moderata del governo di Xi Jinping, le cui grandi campagne sono state semplici aggiustamenti. L’unica eccezione ha riguardato la ricentralizzazione dello stato – da cui la lotta al separatismo, la promozione dell’unità linguistica e la campagna anti-corruzione. Questa battaglia non aveva lo scopo di eliminare il patchwork ma paradossalmente di mantenerlo in vita, facendo sì che le enclavi non fossero più delle vie di fuga, che i residenti di questo o quel punto del mosaico fossero prima di tutto cinesi: in senso culturale (parlare mandarino, amare il Partito) e legale (che tu viva in Xinjiang o a Hong Kong, a Shanghai o nell’Hebei rurale, è a noi che rispondi). Un’operazione estremamente difficile da realizzare senza apportare alcun cambiamento fondamentale al modello dell’autoritario frammentato.
Così come i reazionari che piangono la fine dell’assolutismo frammentato della prima modernità e come i libertariani che vedono lo stato come l’anticristo, anche i progressisti figli della globalizzazione, che godono della stessa libertà di movimento e lavoro che era garantita ai sudditi delle libere città imperiali, sono incapaci di comprendere perché l’autoritarismo frammentato sia in una situazione critica. Come nel caso del Sacro Romano Impero, esso non è più del tutto adatto agli scopi della dinastia/del Partito e le sue contraddizioni sono diventate troppo difficili da gestire. Proprio per questo è stato necessario recuperare alcune vecchie forme del Partito-stato proprie del periodo maoista. Xi Jinping è un Giuseppe II cinese, il monarca asburgico riformista che proclamò il suo impero essere tedesco reprimendo le libertà dell’Ungheria e dei principi locali, proprio come Xi cerca di fare con la Cina. Nessuno dei due è riuscito a raggiungere i propri obiettivi, eppure nel provarci uno ha creato lo stato imperiale austriaco e l’altro ha ricostruito il Partito-stato cinese. Dopotutto, come ha scritto lo storico A.J.P. Taylor, il sogno di Giuseppe si sarebbe avverato “solo con una rivoluzione e una rivoluzione avrebbe distrutto la dinastia. I nobili difesero i loro privilegi, i contadini le loro superstizioni, e i domini di Giuseppe divennero una serie di Vandee”.
Se questo sarà anche il destino della “Nuova Era” cinese è tutto da vedere. Ma il lavoro di Xi non riunificherà il patchwork cinese; Giuseppe II non riuscì a riunificare l’impero frammentato, che sopravvisse finché non venne schiacciato dalla Prussia nel 1866. Per noi questo è già troppo – per noi è inimmaginabile che la Cina, da lungo tempo divisa, debba unirsi anche parzialmente. Dai tempi dell’impero Qing abbiamo celebrato la frammentazione cinese, l’abbiamo feticizzata. Non abbiamo mai pensato che i porti dei trattati, ricomparsi negli anni Settanta come zone economiche speciali, potessero un giorno scomparire. La nostra orientalizzazione della Cina si basa sul culto del patchwork, sulla venerazione delle Cose-Incredibili-Che-Avvengono-In-Cina, sulle storie di atrocità, di miracoli, di assurdità e bellezza. Ammiriamo il patchwork per i suoi colori, i suoi motivi, i suoi disegni; quando qualcuno prova a sostituirlo con qualcosa di più grigio, meno eccitante ma più pratico, frigniamo che è un peccato. E non abbiamo tutti i torti, perché ci piaceva ammirarlo; forse se avessimo dovuto viverci la penseremmo diversamente.
Il patchwork, allora, è una fantasia d’evasione; il Sacro Romano Impero senza statualità e il Partito-stato cinese frammentato sono entrambe fughe dalla realtà. Il patchwork imperiale era impossibile senza l’imperatore, che un giorno l’ha dissolto; il mondo selvaggio della Cina delle riforme è stato costruito in collaborazione con il Partito-stato, che oggi è tornato per tenerlo a freno. Come ha scritto Quinn Slobodian: “al di là della retorica, le zone sono strumenti dello stato, non una liberazione da esso. Al di là delle fantasie di fuga, le zone non possono abbandonare la Terra. La terza verità su di esse è forse la più banale, ma quella con le maggiori conseguenze: le zone hanno abitanti. Nessuna tabula è mai rasa”. Quest’ultimo punto è quello dimenticato da tutti i moderni aspiranti costruttori di stati. È qualcosa che gli assolutisti austriaci si sono rifiutati di prendere in considerazione finché non è stato troppo tardi, finché il Sonderweg prussiano non è venuto a prenderli e ha abolito tutte le eccezioni, le zone e i pluralismi nell’incubo del Terzo Reich – è qualcosa con cui i comunisti cinesi stanno iniziando a fare i conti in modo imperfetto, goffo e improvvisato sotto la guida del loro sovrano assolutista, Xi Jinping. La Nuova Era è questo: il segno che l’era depoliticizzata del patchwork, della globalizzazione e delle zone, ha un limite. Ed è per questo che ci mette così a disagio.