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Bombe su Kiev: cattive, bombe su Beirut: buone – e viceversa. Mai come oggi sono stati evidenti i doppi standard con cui si interpretano eventi e conflitti nel mondo. Tutto vero, ma questo approccio non ci fa capire quanto è profonda la trasformazione della nostra percezione delle relazioni internazionali nel nuovo conflitto globale. Piervittorio Milizia, editor di Iconografie, su come la geopolitica è diventata un gioco delle parti senza regole né vincitori.

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Dove eravate quando avete scoperto che l’esercito russo era entrato in Ucraina? Qual è stata la vostra prima reazione? Qualsiasi sia la risposta, una cosa è certa: nel giro di poche ore vi veniva già chiesto di prendere una posizione sulla guerra. I dibattiti più accesi, fino a quel giorno, erano su temi di politica interna: l’immigrazione, l’Europa, il Covid, Bibbiano… ma all’improvviso non era più così: dopo il febbraio 2022 l’Ucraina dominava le aperture dei telegiornali, le prime pagine dei quotidiani e perfino le chiacchiere di circostanza, mentre ogni giorno usciva un nuovo podcast sulla geopolitica. Ma, cosa più importante, in quell’apparente esplosione di dibattito pubblico non c’era nessun vero spazio per l’espressione libera – ci era già stato chiaramente spiegato come ci saremmo dovuti schierare.

Media e politica erano unanimi: Putin era nella migliore delle ipotesi un folle, nella peggiore un nuovo Hitler. Quella dell’operazione militare speciale non era che propaganda, l’invasione era “non provocata e ingiustificata” (definizione del governo statunitense, della NATO e del Consiglio europeo). L’Ucraina aveva il diritto di difendersi contando su tutto il supporto diplomatico e militare possibile da parte occidentale; la Russia, invece, andava isolata, boicottata, sanzionata e magari anche spartita: c’è un aggressore e un aggredito. Al contempo, la semplice adesione alla causa ucraina diventava condizione sufficiente e necessaria per determinare l’accettabilità di una forza politica, anche se di estrema destra. 

Niente di tutto questo si è visto il 27 ottobre 2023, quando Israele ha invaso la Striscia di Gaza, né tantomeno il 1 ottobre 2024, quando l’esercito israeliano ha avviato la propria “operazione militare mirata e limitata” nel sud del Libano. Esattamente come Vladimir Putin, Netanyahu aveva deliberatamente violato la sovranità nazionale palestinese – riconosciuta dalla maggioranza degli stati del mondo – e libanese (senza contare gli attacchi “mirati” in Siria, Iran e Yemen) e commesso una lunga trafila di gravissimi crimini di guerra e contro l’umanità. Eppure in quel caso l’Occidente ha sostenuto Israele – che non solo non stava facendo niente di male ma anzi andava aiutato, perché “ha il diritto di difendersi”, anche quando attacca le forze di peacekeeping della missione Unifil. Come nel caso ucraino, anche qui c’era un aggredito e un aggressore – i “terroristi” di Hamas e Hezbollah. Malgrado l’evidente differenza tra le due situazioni, il discorso liberale le ha insomma trattate come se fossero sovrapponibili, tacciando di essere filorusso prima e antisemita poi chiunque osasse far notare le differenze. 

La spiegazione di questo atteggiamento è facilmente riconducibile in primo luogo a questioni geopolitiche – la collocazione filo-occidentale dei due paesi, in primis, e poi il fatto che entrambi i conflitti vedono coinvolti alcuni dei principali nemici dell’Occidente, la Russia e, sempre meno indirettamente, l’Iran. Proprio in virtù di ciò, l’Ucraina non difende soltanto sé stessa ma tutto il mondo democratico, diventando così lo scudo dell’Europa, mentre Israele può commettere qualunque atrocità e restare comunque “l’unica democrazia del Medio Oriente”. E chissà che in futuro questo ruolo non si applichi anche a Taiwan – un territorio separatista non riconosciuto a livello internazionale, nato da una guerra civile mai conclusa, tenuto in vita dai propri alleati, per sua natura non così diverso dalle repubbliche secessioniste del Donbass ma sopravvissuto abbastanza a lungo da averlo fatto dimenticare. Se le normali democrazie sono un modello di virtù perché non si fanno la guerra (poco conta che siano tutte alleate tra di loro), in questo caso siamo davanti a delle vere avanguardie della libertà, capaci di rinunciare al proprio benessere per tenere direttamente testa al dispotismo vigente oltre i confini del nostro giardino dell’Eden.

In parole povere, nella politica internazionale contemporanea non contano più niente le azioni reali ma solo la causa nel nome della quale vengono compiute. Parafrasando Stalin, ogni singola morte è una tragedia se commessa dai paesi “autoritari”, mentre un milione di morti è una statistica se figlio del “diritto di difendersi” o della difesa della democrazia. Di per sé questo non è un fatto nuovo, e per capirlo basta guardare alla seconda metà del Novecento: gli Stati Uniti, campioni della liberaldemocrazia, non si sono mai fatti scrupoli ad appoggiare regimi brutalmente autoritari in funzione anticomunista, mentre l’Unione Sovietica paladina dei movimenti di liberazione nazionale invase più di un paese per mantenerlo entro la propria orbita. Ma oggi, come è naturale, i doppi standard seguono una nuova logica. La situazione è stata efficacemente riassunta dall’ex politico e opinionista portoghese Bruno Maçaes in un articolo pubblicato quasi un anno fa dal New Statesman, in cui l’autore individuava quattro “tribù geopolitiche”, definite a seconda del posizionamento assunto rispetto alle guerre in Ucraina e Palestina. Se i sostenitori dell’egemonia occidentale favorivano sia Kiev che Israele, i suoi oppositori si ponevano in solidarietà con Mosca e la Palestina; oltre a questi, Maçaes identificava anche i pacifisti, simpatizzanti di entrambe le cause nazionali, e i fautori della più cinica Realpolitik, fedeli soltanto alla legge del più forte. Curiosamente, si trattava di una categorizzazione identica a quella proposta da un meme diventato virale nello stesso periodo sul social network cinese Sina Weibo – forse un po’ meno diplomatico, dal momento che gli occidentalisti venivano chiamati “cani dell’impero americano”, mentre i suoi oppositori erano coloro che “capiscono appieno il nucleo della geopolitica internazionale.”

L’analisi di Maçaes permette di cogliere due elementi fondamentali. Il primo è che un certo grado di ipocrisia non è un’esclusiva del mondo occidentale: gli stessi stati del sud del mondo che hanno scelto la neutralità davanti al conflitto in Ucraina si sono poi entusiasticamente spesi a sostegno di Gaza – così come ha fatto una grandissima parte dei movimenti di sinistra, passati dal contestualizzare le azioni di Putin a riempire le piazze per protestare contro l’operato israeliano. Ben più rilevante di questo, però, è l’emergere di un conflitto latente fra l’Occidente e i suoi nemici. Nei decenni della “fine della storia”, infatti, le relazioni internazionali, per quanto tese potessero essere, si reggevano sempre su di una certa accettazione dell’ordine globale a guida statunitense – all’epoca la contestazione dell’egemonia americana era saltuaria e arrivava soltanto da attori tutto sommato marginali, mentre il conflitto interno si limitava ai binari del pacifismo, come visto nelle grandi manifestazioni contro le guerre nell’ex-Jugoslavia e in Iraq. Oggi la situazione è profondamente diversa: anche stati di primissimo piano mettono in discussione lo stesso modello liberal-democratico (Cina e Russia sopra tutte), mentre altri semplicemente rivendicano una democratizzazione dei rapporti fra nazioni (il Brasile di Lula). In breve, eccoci nella cosiddetta seconda guerra fredda.

A distinguere questo nuovo scontro da quello vecchio è però l’assenza di un conflitto ideologico sovrastante in grado di muovere da una parte o dall’altra le nostre simpatie. Lo stesso Occidente non combatte per imporre il proprio modello politico-economico al resto del mondo ma per preservare quello che ne resta all’indomani dell’esaurimento del suo ciclo storico. E i suoi avversari sono in una posizione simile: estremamente divisi fra di loro e tutto sommato privi di una propria proposta alternativa capace di contrastare il capitalismo liberale in crisi. È proprio in virtù di questa pochezza che l’attuale scontro fra potenze si è configurato come “una guerra culturale, su scala globale”, come ha notato l’analista brasiliano Alex Hochuli, in cui rientra anche l’approccio alle relazioni internazionali. La nuova guerra fredda, insomma, non ha un contenuto politico e si pone semplicemente come scontro tra visioni diverse circa la conduzione di un mondo che non si può (né si vuole) trasformare nella propria essenza, con tutte le conseguenze del caso.

È in questo senso che è cambiato l’imperialismo occidentale, tradottosi in una forma in primo luogo difensiva ma non per questo meno violenta, in una sorta di ritorno a pratiche tipicamente ottocentesche. Gaza è lì a dimostrarlo, e così la chiusura sempre più ermetica delle frontiere europee, il sabotaggio diplomatico ed economico della globalizzazione e la maggiore propensione ad alimentare escalation militari. Naturalmente tutto questo non può essere proclamato apertamente, non foss’altro perché viviamo ancora sulla scia dell’universalismo progressista degli anni Novanta che ad oggi è l’ultimo rimasuglio di legittimazione politica del mondo occidentale, dando origine a fenomeni ambigui: si violano gli stessi valori di cui ci si proclama difensori, e si afferma di violarli proprio per difenderli. È da cui che vengono il femonazionalismo (la retorica razzista e islamofoba mascherata da femminismo) e gli autoproclamati liberali che si schierano in favore di regimi fascio-adiacenti. Proprio questo universalismo permette alla coscienza liberale non solo di non vedere i propri errori ma anche di porsi come unico garante della stabilità internazionale – lo vediamo ad esempio in un articolo del New York Times che spiega il caos mediorientale come il prodotto di una troppo debole influenza americana sulla regione. 

Al contempo, e per le stesse ragioni, si è profondamente trasformato anche l’anticolonialismo che, come ha sottolineato il sociologo ucraino Volodymyr Ishchenko, ha di fatto rinunciato ad essere un motore di rivoluzione sociale per limitarsi a condurre battaglie simboliche e identitarie. Senza voler sminuire il ruolo delle lotte per il riconoscimento a livello culturale, è evidente che battaglie come la riappropriazione della propria cultura gastronomica – come quella attualmente combattuta in Ucraina per affermare la paternità nazionale di Kiev sul boršč – non vadano ad intaccare il sistema di sfruttamento imperialistico alle proprie basi. Al contrario, essendo privi di un indirizzo ideologico reale che vada al di là di queste strategie, i movimenti di liberazione finiscono per essere incapaci di immaginare una propria dimensione alternativa e si ritrovano oggi più che mai vincolati a esprimersi in forme nazionalistiche o di ispirazione religiosa – le stesse da cui Lenin metteva in guardia i rivoluzionari già nel 1920. Ed ecco che in questo vuoto di idee ci si ritrova ad essere liberi dal vecchio padrone solo per finire nelle grinfie di quello nuovo: è il destino dell’Ucraina sotto il controllo americano, reso evidente da certi piani di ricostruzione del paese, ma anche di una eventuale Palestina liberata ma costretta nell’orbita di influenza iraniana. Dopotutto, l’indipendenza da sola non è che un mero fatto istituzionale, una bandierina in più da issare davanti alla sede delle Nazioni Unite; la liberazione è un fatto decisamente più complesso che passa per la costruzione di una macchina statale capace di rispondere ai bisogni della propria cittadinanza, sennò non si spiega perché la sinistra non dovrebbe rivendicarsi anche la liberazione della Padania o di un Volkstaat bianco in Sudafrica.

In questo tranello cascano i liberali, ovviamente, ma anche i pacifisti e gli antimperialisti più sinceri che, abbracciando una visione depoliticizzata della propria lotta, finiscono per promuovere una visione del mondo conservatrice e in definitiva reazionaria, più simile allo scontro civiltà di Huntington che non a qualunque cosa possano aver scritto Fanon o Cabral. Nessuno di questi sarà però capace di riconoscere i limiti della propria lettura del mondo, proprio perché perso il peso ideologico questi discorsi passano da essere la narrazione della nostra impostazione politica a quella della nostra persona, come se le opinioni in materia di affari internazionali fossero un tratto caratteriale. Paradossalmente, sembrano uscire da questa impasse soltanto quanti hanno deciso di accettare la cattiveria del mondo contemporaneo. Come già aveva fatto Henry Kissinger nel secolo scorso, questi vedono il mondo contemporaneo come un contenitore caotico di interessi inconciliabili e accettano il male come mezzo necessario per evitare che possa accadere di peggio – una versione tragicamente poco comica del meme “billions must die”. E allora occorre forzare l’Ucraina a cedere pezzi del proprio paese e spingere i paesi arabi ad accogliere i profughi palestinesi per dare loro una nuova casa che sia anche l’ultima. Apparentemente la più concreta, questa visione fa in realtà acqua da tutte le parti, non solo perché favorisce l’impunità dei crimini contro l’umanità, ma anche perché presuppone la natura violenta delle relazioni internazionali, negando ogni spazio al dialogo. Così facendo, non risolve assolutamente i problemi di mondo attuale profondamente segnato dal declino dell’egemonia politico-economica euro-atlantica e dall’ascesa dei paesi in via di sviluppo, in cui i conflitti sono destinati a moltiplicarsi, creando il bisogno di una maggiore cooperazione globale e non della sorda accettazione dell’orrore. Un conflitto, come sappiamo, può serenamente raggiungere picchi drammatici di violenza pur essendo al centro degli interessi internazionali, ma cosa accadrebbe in un mondo in cui regnano il silenzio e l’omertà?

Lo si è visto tra il 2020 e il 2023, quando, nel disinteresse dei governi e delle opinioni pubbliche di tutto il mondo, l’Azerbaijan ha conquistato l’intero territorio dell’Artsakh, uno stato separatista a maggioranza etnica armena, dopo una serie di brevi ma sanguinosi conflitti puntualmente accompagnati da gravi violazioni del diritto penale internazionale. Poco o per niente rilevante nello scacchiere globale, la popolazione è stata lasciata vittima di una pulizia etnica sia dai russi, lì installati in funzione di peacekeeping, sia dagli occidentali, limitatisi a riconoscere il fatto compiuto. Il duro prezzo per essere il nemico di qualcuno, in assenza di amici.


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